L’ho avuta sotto il naso sin dal primo giorno in cui sono arrivato a Chalna, eppure non l’avevo ancora notata. Mi succede sovente: faccio caso alle cose più insignificanti e non presto attenzione a quelle più importanti, volando per la maggior parte del mio tempo rasoterra. Mi perdo così il meraviglioso sguardo d’insieme che solo un volo ad alta quota ti regala. Forse perché sono pigro e allo sforzo di comprendere la complessità della realtà spesso preferisco chiudere un occhio e accontentarmi di curare solo il mio piccolo giardino.
A dire la verità non è che non l’avevo vista, tuttavia non ero riuscito ad apprezzarne ancora fino in fondo la portata.
Sto parlando della rivoluzione sociale che la presenza della missione dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII qui a Chalna ha innescato. Una rivoluzione silenziosa, fatta con tutta l’accortezza necessaria per non infastidire le autorità governative e religiose islamiche che altrimenti avrebbero gioco facile ad accusarla di proselitismo e creare grossi problemi al proseguimento delle sue attività. Silenziosa e nonviolenta, realizzata con numerosi mezzi, ma in particolare con lo strumento più micidiale, con gli effetti di più lunga durata che l’essere umano conosca. L’arma in questione si chiama educazione e il target sono le bambine e i bambini più poveri di questo villaggio, i figli degli intoccabili o quelli di nessuno abbandonati sulle strade per i motivi più diversi, destinati a svolgere i lavori più duri sin dalla tenera età, spesso vittime di abusi e violenze da parte di grandi che di grande hanno davvero poco.
Quasi ogni giorno da quando mi trovo a svolgere
il servizio civile in questa missione,
la mia giornata è cominciata con la gioia
di osservare flotte di bambini e ragazzi
recarsi a lezione nelle aule costruite
dalla missione dentro o appena
fuori dal suo cancello.
Sin dal mattino presto, tornando dalla preghiera,
con il freddo umido che il sole nascente non riesce
ancora a dissolvere oppure sotto la pioggia battente, è uno spettacolo impagabile vederli arrivare vestiti più o meno di tutto punto, chi con la cartella e chi con i quaderni sotto braccio, correre nelle loro aule, legare al filo dell’alza bandiera il vessillo nazionale con il sole rosso sul prato verde, perché venga issato poco prima di iniziare le lezioni, mentre in fila e ordinati cantano l’inno, composto dalla gloria del Bengala Rabindranath Tagore.
Ognuno speciale a suo modo, ognuno con un tesoro che attende solo di essere scoperto, ognuno con i propri limiti e le proprie sofferenze.
Questa mattina mi è stato chiesto dal capomissione, brother Rudy, di collaborare alla stesura dei report da inviare alle famiglie adottive in Italia, per aggiornarli sulla situazione scolastica, emotiva e di salute dei loro figli.
Questo incarico mi ha consentito di comprendere la portata rivoluzionaria del progetto delle adozioni a distanza messo in piedi da ormai una decina d’anni.
Sfogliando l’archivio ho letto le storie dei bambini che ogni mattina mi trasmettono così tanta felicità. Ho avuto modo di conoscere, con lo stomaco che mi si stringeva, le sofferenze che hanno dovuto patire, dalla povertà più estrema, alla malnutrizione, alle molestie e le violenze, all’abbandono, le malattie e ai lutti.
Ho avuto modo di immaginare a quale destino sarebbero stati condannati se dalla generosità di molte famiglie italiane e grazie ai missionari della Comunità non fossero arrivati i fondi e le competenze necessarie per mettere in piedi un progetto come quello che ho sotto gli occhi, che fornisce educazione scolastica, cibo e vestiti ad oltre 350 bambini, che si alternano durante il giorno nelle strutture scolastiche. Un numero che, facendo un calcolo alquanto approssimativo, essendo impossibile in Bangladesh reperire dati esatti sulla popolazione perchè i nuovi nati non vengono registrati, dovrebbe rappresentare l’8% della popolazione in età scolastica della città di Chalna.
Questo vuol dire che tra dieci anni su 100 giovani adulti della generazione che in questo momento sta frequentando le scuole elementari e medie qui a Chalna, 8 di loro saranno in grado di leggere, scrivere e magari parlare inglese grazie alla presenza della missione. Significa che forse si riuscirà ad interrompere l’ingiusta catena che da centinaia d’anni vedeva condannati i figli degli intoccabili al destino dei loro padri, un destino fatto di relegazione ai margini della società non tanto de iure, dal momento che il sistema delle caste in Bangladesh è stato proibito in quanto stato islamico, quanto de facto per la mancanza di opportunità economiche e culturali in cui si trova a crescere un bambino figlio di intoccabili. Essere un intoccabile qui a Chalna significa svolgere lavori a bassissimo reddito, come il lustrascarpe, il conciatore di pelli, pulire le fogne o spaccare le pietre.
E così adesso mi è chiaro uno degli effetti dirompenti che la comunità sta avendo in questo piccolo villaggio del Bangladesh.
Mi e’ chiaro quanto è grande il bisogno di affetto del bambino con la voce roca e un nome bello quanto il mare, Shagor, che ogni mattina in italiano mi chiede quanto bene gli voglio e, facendo tutto da solo, si risponde “tantissimo”. E mi ritrovo davvero a volergli tantissimo bene, come a tutti i bambini che incontro sin dal primo mattino.
E alla fine, in questa fresca serata invernale, in cui assaporo per la prima volta il profumo della pioggia del Bengala, mi trovo a voler bene
anche a quegli adulti bestiali che, nella loro ignoranza e cecità, hanno fatto loro del male.
E capisco che forse e’ proprio questo il motivo per cui un uomo di nome Gesù sia apparso nella Palestina di 2000 anni fa, sacrificando se stesso per insegnare agli altri a non odiare, a fare giustizia e sopratutto, a perdonare.
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