Caschi Bianchi Tanzania

Le donne in Tanzania

Doveri senza diritti e sfruttamento: la donna è il capro espiatorio su cui si sfoga la violenza del sistema.

Scritto da Giuseppe Falcomer, Casco Bianco a Iringa

1. Mama Huzuni

Maria Bikira wa Fatima è un Pronto Soccorso Sociale per bambini che opera in Tanzania da circa 8 anni. Un giorno un vecchio signore ha bussato alla porta del Pronto Soccorso chiedendo se Laila, la responsabile, potesse accogliere i suoi nipoti che avevano bisogno di una casa e di una famiglia. Suo figlio, un uomo violento che in passato aveva già percosso molte volte la moglie, questa volta aveva esagerato: l’aveva infatti picchiata a morte e i bambini, ora, erano rimasti senza cure, esclusivamente a carico del nonno che però non era capace di fornire loro le attenzioni adeguate. Raccontando l’episodio, il vecchio ha affermato che la moglie “è morta”. Ora, che abbia scelto le parole in modo più significativo o che queste siano state spontanee, la forma in cui il tragico fatto è stato esposto lascia intuire lo stile di vita che le donne in Tanzania sono costrette ad affrontare: non “l’ho uccisa”, ma “è morta”. Il soggetto dell’azione non è il marito in veste di assassino, ma la donna stessa: non le è riconosciuto e concesso nemmeno il ruolo di vittima.

2. La vita delle donne
2.1. La giovinezza

La nascita di un bambino è un evento eccezionalmente felice per la popolazione della Tanzania: un proverbio afferma che “Il sorriso di un bimbo è la luce della casa”(1). Nelle prime cure e attenzioni date ai neonati non esistono sostanziali differenze tra i due sessi. Solamente quando sono più grandi secondo la cultura tradizionale ai maschi e alle femmine vengono insegnate differenti mansioni, che si ritiene saranno utili alla loro vita adulta. I maschi, quindi, imparano prevalentemente i lavori manuali e la coltivazione dei campi, mentre le femmine apprendono come eseguire le faccende di casa. Nel passato, quando andare a scuola era una possibilità solamente per una minoranza della popolazione, l’istruzione ricevuta in casa era importantissima e veniva effettuata dalle persone più anziane della famiglia. Ora, invece, la situazione sta cambiando perché quasi la totalità dei bambini ha la possibilità di frequentare in un primo momento l’asilo e in seguito le scuole primarie, che hanno la durata di sette anni. La crescita culturale delle nuove generazioni è quindi seguita principalmente dagli insegnanti. Ma anche nell’ambiente scolastico i due sessi non sono trattati in uguale maniera. Agli alunni vengono generalmente riconosciute maggiori capacità intellettive rispetto alle alunne(2). Questa consuetudine trova le sue radici nella cultura che i maestri hanno ereditato da giovani nelle famiglie d’origine: una cultura assolutamente patriarcale che ha profondamente radicato in loro la convinzione di una supremazia maschile. Questo atteggiamento mentale proprio della popolazione tanzaniana si presenta in tutti gli aspetti e dinamiche della vita quotidiana, ma acquista proporzioni allarmanti nell’ambito scolastico. Molte associazioni, enti e comunità religiose negli ultimi anni hanno combattuto la consuetudine di privilegiare i maschi nell’accesso alla scuola. Infatti, in caso di una famiglia con scarse risorse economiche, erano i figli maschi a ricevere un’istruzione. Le figlie erano tenute a casa per poter aiutare le donne nelle faccende domestiche e nella coltivazione dei campi, o in altri lavori che provvedevano alla sussistenza dell’intera famiglia. Questo comportamento era influenzato dalla convinzione che la futura moglie non avrebbe potuto trovare un incarico di importanza tale da necessitare un’istruzione: la sua vita era programmata all’interno della casa, totalmente dipendente dal marito a livello economico. Anche nel caso avesse trovato un lavoro, gli eventuali frutti di una buona istruzione, soprattutto a livello salariale, sarebbero stati goduti dal futuro marito e non dalla famiglia che doveva provvedere al pagamento delle tasse e all’acquisto delle divise e del materiale scolastico: lo sforzo per far studiare le figlie non era considerato accettabile. Solo una forte sensibilizzazione ha quindi permesso alla maggior parte dei minori di poter effettivamente frequentare la scuola primaria, ma anche se questa logica ora sta scomparendo, sono comunque una minoranza le ragazze che possono cominciare la carriera scolastica e proseguire ed accedere alle secondarie. Infatti, la questione della discriminazione sessuale è rientrata anche nella campagna promossa dall’ONU “No more excuse 2005”.
Nel corso degli anni le studentesse hanno incontrato anche altri tipi di problemi prevalentemente legati alla sfera sessuale. Sono infatti soggette a molestie da parte di insegnanti e compagni. Qualora una ragazza rimanga incinta, le è imposto di abbandonare la scuola: ogni anno una larga percentuale di scolare è così costretta a interrompere prematuramente gli studi. A volte il fenomeno acquista proporzioni incredibili: secondo una recente indagine nel Distretto di Tandahimba circa l’80% delle studentesse, in età compresa tra i 15 e i 18 anni, ha dovuto ritirarsi per questo motivo(3). Spesso, inoltre, per rimediare alla situazione le ragazze sono costrette a sposarsi contro la loro volontà(4). Le notizie di abusi sessuali subiti da ragazze minorenni sono frequenti, riferite soprattutto da fonti orali, come missionari. L’accettazione da parte della popolazione di questi episodi è sconcertante, tanto che i provvedimenti presi nei confronti degli insegnanti che si macchiano di tali reati sono spesso nulli, solamente in alcuni casi vengono richiamati ufficialmente e spostati di sede. La ragione risiede nei comportamenti dei genitori, che accettano o non si curano delle violenze subite dalle loro figlie e dalla mancata denuncia di queste azioni da parte delle bambine, per vari motivi. In questo atteggiamento un ruolo fondamentale è giocato dalla paura: se si negano o raccontano l’accaduto, le ragazze rischiano di subire ulteriori violenze fisiche come percosse e altri tipi di umiliazioni. Inoltre, sono minacciate dagli insegnanti di incorrere in una bocciatura e di essere cacciate o espulse con qualche futile scusa. Non sempre però le ragazze hanno gli strumenti per comprendere quando un’azione che devono subire e sopportare è malvagia o ingiusta. Esse sono esposte ad abusi anche fuori dalle mura scolastiche. In alcuni casi può succedere che fin da piccole abbiano dovuto concedere favori sessuali anche a persone loro vicine, come i nonni. Essendo così abituate, per loro è impossibile stabilire la liceità di un’azione, la loro forma mentis compromessa incide pesantemente e segna in maniera indelebile tutta la loro esistenza. È possibile che uomini adulti si avvicino a queste bambine regalando loro pochi centesimi di Euro in cambio di prestazioni sessuali, e che queste siano disposte a vendersi perché a questo sono state abituate: a volte non esiste il concetto di pedofilia. Così, per le ragazze, diventa normale fornire prestazioni sessuali in cambio di buoni voti, suggerimenti agli esami o di una facile promozione. Per le alunne questo atteggiamento è una consuetudine, nessuna appare turbata o sconvolta di dover prendere segretamente accordi con gli insegnanti programmando gli incontri sessuali(5). Nonostante la sensibilizzazione della popolazione, gli appelli di associazioni, comunità e autorità, non ultimo del presidente della Tanzania Benjamin Mkapa, il problema è ancora lontano dall’essere risolto. Il 2 novembre scorso il Ministro dell’Educazione e della Cultura ha comunicato che qualunque studente maschio sia trovato a fare sesso nell’ambiente scolastico verrà immediatamente espulso(6). Il nuovo provvedimento per il momento non interessa le ragazze: è un modo indiretto per palesare che la decisione di avere un rapporto sessuale o meno, e in questo particolare caso la colpa di contravvenire all’etica sociale, è un aspetto che interessa solamente il sesso maschile. Le ragazze non hanno la possibilità di negarsi o di opporsi.
Pur essendo previste a livello teorico, la povertà in cui verte il paese non permette la creazione di aule speciali per i ragazzi con handicap, che sono così costretti a restare chiusi in casa, dove spesso rimangono nascosti e non ricevono le cure necessarie. Le ragazze con problemi fisici o mentali sono allontanate e il loro isolamento è causato da paure ignoranti e antiche credenze, mentre in altri casi sono soggette anch’esse a violenze sessuali. Anche per loro è impossibile opporsi e per le malate mentali non è nemmeno possibile denunciare l’accaduto.
Una volta raggiunta la pubertà, le femmine hanno un’altra prova da superare per poter diventare a tutti gli effetti donne e membri della comunità: la clitoridectomia totale o parziale. Tale usanza, in passato estremamente diffusa, oggi è in netto calo, ma comunque 20 delle 130 tribù presenti nel territorio continuano a effettuarla. Se circa il 20% delle donne della Tanzania subisce questi riti iniziatici, si raggiungono picchi dell’85% tra i Wagogo e del 100% tra i Masai(7). Nelle comunità che rispettano la tradizione questo è un passaggio obbligato se le ragazze vogliono essere riconosciute e accolte dalla tribù e se desiderano trovare un marito: infatti, se non subiscono la mutilazione genitale nessun uomo accetterà di sposarle.

2.2. La maturità
Una volta cresciute e diventate adulte, le ragazze sentono pressante il desiderio di sposarsi poiché per le donne e per gli uomini la creazione di una famiglia è uno degli obiettivi fondamentali da raggiungere. I loro sogni sono uguali a quelli di ogni ragazza o ragazzo nel mondo: trovare qualcuno che li ami e con cui vivere e trascorrere un’esistenza felice. In passato era la famiglia che decideva chi dovessero sposare i figli: i genitori ritenevano di avere più esperienza nel valutare le persone. La bellezza fisica era importante, ma non era uno dei criteri fondamentali, le virtù che maggiormente contavano e pesavano sulla scelta erano il clan di appartenenza della persona e la sua reputazione. Solamente dopo gli anni Cinquanta la tradizione ha subito una brusca interruzione: gli uomini erano stati chiamati in guerra e quando tornavano, spesso per brevi periodi, volendo sposarsi non riuscivano a rispettare tutto il lungo rituale e si verificarono i primi matrimoni “per ratto”. Dagli anni Novanta la scelta della sposa o dello sposo è presa nella quasi totalità dei casi dai giovani stessi, che in un secondo tempo lo comunicano alla famiglia che approva e inizia le trattative. Una delle questioni fondamentali da decidere è l’ammontare della dote, che varia da tribù a tribù. Nella maggioranza dei casi è un dono da fare alla famiglia della sposa, ma a volte è costituita anche da una prova di coraggio che interessa l’uomo, il quale deve dimostrare alla famiglia della donna di essere degno di lei. L’usanza della dote è ancora estremamente radicata in Tanzania e ha un significato diverso da quella che in passato era radicata in Italia. La dote, in origine, esprimeva un concetto profondo. Crema(8) afferma che questi regali esprimono un ringraziamento ai genitori della sposa per aver allevato così bene la loro figlia, e serviranno in caso di necessità o per assicurare la sicurezza economica alla figlia e ai nipoti, ad esempio qualora rimanga vedova o divorziasse. Mulago(9) a sua volta sostiene che questo risarcimento mediante doni alla famiglia della donna è chiamato abusivamente dote, ma in realtà è più correttamente uno scambio, un pegno di alleanza in quanto esprime l’unione fra due discendenze e la reciprocità di cui è caratterizzato il vincolo del matrimonio. Questo aspetto rituale “che è uno scandalo per gli stranieri e per l’africano moderno”(10) viene descritto da Mulago come un simbolo di solidarietà e comunione tra due nuclei. Effettivamente, il concetto di dote è stato in passato frainteso dagli occidentali, ha portato sconcerto e disgusto poiché veniva considerato come il “prezzo” che si doveva pagare per comprare una moglie, un’usanza di popolazioni barbare e arretrate. È normale che alcuni studiosi in risposta a simili posizioni abbiano descritto questo aspetto della vita di alcune tribù africane circondandolo di un’aurea a volte eccessivamente poetica. A prescindere quindi dal significato che poteva avere in passato, la dote oggi contribuisce a peggiorare la situazione delle donne. Nel caso i doni abbiano un basso valore economico, se il matrimonio è in crisi il marito può trattare la consorte con meno rispetto, motivando il suo comportamento con il basso valore della moglie stessa. Ovviamente questo atteggiamento acquista proporzioni ancora più rilevanti quando la dote non è stata pagata: il marito può allora permettersi di trattare la moglie come una vera e propria schiava. Se il matrimonio si dovesse rompere, inoltre, la dote deve essere restituita alla famiglia del marito dai parenti della moglie: nel caso che questi non dispongano delle risorse economiche necessarie, la donna non può abbandonare la casa, ma deve continuare a sopportare la situazione senza poter fare alcunché. In alcuni casi, se l’uomo che vuole sposarsi non possiede nulla da portare come dote o non riesce a raccogliere la cifra stabilita, il matrimonio non può essere celebrato se non andando contro la volontà dei parenti ed accettando così la loro ira ed un eventuale allontanamento.
Qualora la coppia non abbia nessuna crisi tale da portare alla separazione, la vita della moglie non è comunque esente da difficoltà. I sogni adolescenziali svaniscono presto. Il marito, infatti, molto spesso non assicura alla sua famiglia la sicurezza sperata dalla ragazza. Le faccende domestiche sono completamente a carico della donna, l’uomo non la aiuta, ma si aspetta di essere soddisfatto in ogni sua necessità o voglia: dal cibo mangiato da solo, servito dalla solerte moglie, al suo appetito sessuale, soddisfatto in qualsiasi momento. Anche la coltivazione dei campi è un compito che grava in gran parte sulle spalle della donna, dallo zappare al seguire la crescita delle colture. Alle spese domestiche l’uomo contribuisce in parte: ad esempio paga la retta della scuola dei figli, ma non offre denaro per comprare loro le divise o i libri di testo, di cui lei deve farsi carico. È inoltre lui che decide le spese generali e amministra i soldi della casa, anche se, in realtà, è la donna a garantire le entrate. Solamente se la donna riesce a coltivare o ad avere un piccolo commercio da sola, senza rubare tempo ai suoi doveri di moglie, allora potrà godere e gestire del denaro in completa autonomia: solo i mariti peggiori si permettono di toccare questi ricavi e l’azione è ritenuta una mancanza gravissima. Il marito è quindi poco presente nella vita di coppia, a volte perché non ha un’unica moglie. In Tanzania è presente e diffusa la poligamia. In passato sposarsi più volte era un segno di benessere economico e di prestigio sociale: l’uomo che poteva permettersi di farlo infatti aveva le risorse per mantenere una famiglia numerosa. Oggi l’usanza è mutata: gli uomini possono sposarsi per poter sfruttare più donne contemporaneamente. Infatti, il marito passa il tempo a bere pombe (la birra locale) senza preoccuparsi di lavorare. A turno passa brevi periodi in casa di tutte le donne sposate, gravando completamente su di loro.
In ogni caso la relazione tra moglie e marito è vissuta in Tanzania in maniera sostanzialmente differente da altre parti del mondo. Spesso le vite dei coniugi scorrono separatamente e il dialogo non raggiunge livelli profondi. Sembra che le mogli, una volta finito di sbrigare le faccende domestiche e di svolgere i loro inderogabili doveri, abbiano ampia libertà di azione e di autonomia. Anche le famiglie d’origine lasciano liberi i figli una volta adulti, senza interferire o entrare nei loro affari privati: l’atteggiamento delle famiglie e dei parenti italiani, a confronto, viene vissuto come un’intrusione eccessiva ed inopportuna nella vita di coppia(11). In ogni caso, però, la libertà si vanifica e perde le sue possibilità nella maggior parte dei casi, in quanto le donne non hanno le risorse né i mezzi per poter effettuare delle scelte significative o attività proprie che contribuiscano realmente al cambiamento della loro situazione.
Un altro problema che le donne devono affrontare è la corruzione sessuale. In Tanzania non è raro che chi detiene il potere richieda, anche per servizi dovuti alla popolazione, un compenso in denaro o un tributo sessuale. La richiesta si basa sulla paura creata nelle vittime, che a volte necessitano con estrema urgenza di ciò che chiedono, e altre volte su minacce più o meno velate. Tali pretese possono essere avanzate per certificati, cure mediche e ogni altro servizio. A volte anche per mantenere un posto di lavoro devono concedere favori sessuali al loro principale e agli altri uomini dell’azienda: ogni rifiuto potrebbe portare al licenziamento o al mancato pagamento dello stipendio(12). Ma anche tra le mura di casa esse subiscono lo stesso trattamento. Tra i doveri delle mogli quello sessuale è fondamentale e non può esserci risposta negativa alle pretese del coniuge. Nel caso che la moglie si neghi, viene violentata o presa con la forza. Anche nei casi in cui il marito abbia il vizio del bere o debba sfogare una rabbia repressa, la vittima è sempre la moglie. La dipendenza economica e la paura di essere prima disapprovate e in seguito abbandonate dalla famiglia e dalla comunità sono fattori che spingono le donne a non ribellarsi e a non denunciare questi maltrattamenti(13). I parenti della donna sovente spingono affinché questa sopporti e non abbandoni i figli e il marito, accettano la situazione e contribuiscono a non modificare lo stato dei fatti. La purezza della donna è preservata con ostinazione e serietà nella cultura africana, ma non esiste il corrispettivo dovere per l’uomo, sia da ragazzo che da marito. La purezza della sorella e della moglie è protetta anche con la forza ma non esiste alcuna remora ad importunare bambine, figlie e mogli altrui. Appare chiaro quindi come la salvaguardia femminile non sia considerata un valore superiore, ma sia determinata da interessi egoistici e futili. Non è un’azione spinta dall’amore per la coniuge o i parenti, per contribuire al loro benessere fisico e spirituale, è un possesso più che una cura. Inoltre, i rischi di un tale trattamento sono enormi, primo tra tutti l’elevata possibilità di contrarre il virus dell’HIV. Le avventure extraconiugali del marito portano il virus tra le mura domestiche e la possibilità di infettare moglie e familiari anche se il loro comportamento è attento e fuori da ogni rischio. Le donne non possono permettersi di richiedere al marito l’uso del preservativo nei rapporti: poche coppie hanno un tale grado di apertura e di dialogo. Un recente studio compiuto nell’isola di Zanzibar afferma che, qualora un marito abbia molte partner, paradossalmente le prostitute hanno minori possibilità delle donne sposate di contrarre il virus dell’HIV poiché possono richiedere e imporre l’uso del preservativo ai loro clienti(14).
Durante un’intervista padre Romolo(15) ha affermato che le vittime di possessioni di spiriti malvagi sono in maggior parte donne. Secondo Padre Romolo la ragione risiederebbe nel fatto che esse non perdonano coloro da cui hanno ricevuto del male: contravvenendo alle parole recitate nel Padre Nostro aprirebbero delle porte spirituali che lasciano entrare i demoni. Certamente moltissime giovani ragazze presentano disturbi mentali dovuti a violenze subite negli anni, che sfociano in attacchi talmente forti e patologici da poter apparire come vere e proprie possessioni. La popolazione tanzaniana, anche parte del clero locale, crede fermamente nella magia e nel mondo invisibile, spirituale, così che molti casi di malattia mentale sono spiegati tramite questi concetti. In questo modo le contromisure adottate sono spesso solamente sedute di preghiera e periodi di riposo, ma non viene dato nessun sostegno più approfondito per affrontare e risolvere i problemi che realmente le affliggono. Depressioni, schizofrenie e altri problemi sono diffusi tra la popolazione femminile ma rimangono ignorati e non sono curati. In alcuni casi le frustrazioni e le crisi esplodono violentemente.
Suor Stefanella, missionaria della Consolata, offre un servizio di assistenza spirituale alle donne nelle carceri di Iringa. Il suo approccio alla situazione non prevede un regolare approfondimento del trascorso e della loro storia personale delle donne, ma in alcuni casi, per poterle aiutare, questo è necessario. A volte ha ascoltato il racconto dei loro reati: reazioni estremamente violente ai soprusi subiti nell’ambito familiare che si sfogano su mariti e su figli.

2.3. La vecchiaia
La società tanzaniana è caratterizzata dal concetto di famiglia allargata, un nucleo che risale a tempi antichi attorno a cui ruota la vita dei singoli e ne costituisce il perno della socialità. La struttura sociale è improntata su un modello che vede i bambini curati dai membri anziani, che non riescono più a svolgere i lavori pesanti e sono i possessori della cultura, e della conoscenza; mentre i giovani e gli adulti formano la forza lavoro e possono svolgere liberamente i loro compiti. Inoltre, oltre che essere funzionale a sfruttare tutte le risorse in modo ottimale, la famiglia allargata riesce a occuparsi anche di orfani e di bimbi che altre famiglie da sole non possono più allevare e sostenere. Oggi questo tipo di famiglia sta scomparendo, soprattutto a causa dei decessi per Aids e per estrema povertà. La malattia, che colpisce prevalentemente le persone comprese tra i 15 e 45 anni, sta letteralmente falciando la fascia produttiva della popolazione. Così la coltivazione dei campi, il sostentamento della famiglia e la crescita dei piccoli sono tutti compiti che gravano sulle spalle degli anziani, che non sempre sono all’altezza o hanno le forze necessarie.
Qualora il marito sia ancora vivo, i compiti verranno divisi tra i due, ma ovviamente graveranno soprattutto sulla donna. Invece, nel caso l’uomo sia deceduto, per la vedova i problemi saranno enormi. Infatti, la tradizione prevede che i beni del morto siano divisi tra i figli ma nulla è previsto venga lasciato alla moglie: qualcuno dovrà occuparsi di lei. Anche nelle questioni ereditarie non c’è parità di trattamento tra i sessi: la maggior parte dei beni viene data al primogenito, il rimanente viene diviso in seguito tra gli altri figli di sesso maschile e solo una piccola parte è prevista per le figlie. Se invece i figli sono ancora troppo piccoli una parte dei beni è conservata per il primogenito maschio e tutto il resto viene rubato dai parenti del deceduto. La vedova viene spogliata di ogni bene e deve far ritorno al villaggio d’origine con i figli a carico. Queste azioni sono una palese violazione dei diritti umani e delle leggi dello stato della Tanzania, ma per la popolazione questo non è un problema. Anche per la violenza carnale è prevista l’incarcerazione a vita, o per un periodo comunque non inferiore ai 30 anni, e il risarcimento della vittima. Anche la mutilazione genitale femminile e l’incesto sono puniti dal codice penale in vigore(16). Alcune associazioni umanitarie stanno sensibilizzando la popolazione, e in particolare le donne, affinché le coppie scrivano il testamento o pronuncino le loro ultime volontà in presenza di testimoni prima di morire, per evitare soprusi alle vedove, ma le leggi in Tanzania sono una realtà a parte.
Il sistema legislativo si basa sulla coesistenza di usanze tradizionali, leggi statali e islamiche: a seconda dei casi si deciderà quale tipologia applicare. Per la maggior parte delle persone comunque vigono ed hanno fondamento gli usi e costumi che sono stati tramandati loro, a prescindere dall’ingiustizia o dalla violenza che li caratterizzano. I diritti e i doveri previsti dallo stato o dai trattati internazionali non sono conosciuti.
Gli insegnamenti ricevuti durante la crescita sono il bagaglio con cui le persone valutano le situazioni e reagiscono ad esse. Alle bambine è stato insegnato che non devono ribellarsi, devono accettare qualsiasi situazione e tacere. L’atteggiamento di passività delle donne e la loro impossibilità di reagire si esprime in maniera più pronunciata nelle donne anziane, che hanno ricevuto un’istruzione tradizionale, in casa. È stato loro insegnato, esplicitamente o implicitamente, che devono lavorare e comportarsi in qualunque situazione a favore della comunità, proteggendola a qualsiasi costo anche se ciò va contro i loro personali interessi. Vengono considerate le colpevoli di mille disgrazie e incidenti, i soggetti con cui prendersela quando le cose vanno male, le schiave della casa, che devono servire padre, fratelli, nonni e zii ma mai pretendere di essere rispettate a loro volta.

2.4. Conclusioni
La situazione delle donne è allarmante in tutti gli stati dell’Africa orientale. In Kenia “il corpo della donna diventa il capro espiatorio su cui si sfoga la violenza del sistema”(17). Anche in Zambia un diffuso maschilismo mette in condizione di inferiorità e di impotenza il sesso femminile, mentre l’abuso sessuale e alcuni aspetti culturali come il cleasing (per cui una vedova deve purificarsi dallo spirito del marito morto tramite un rapporto sessuale con un parente del defunto) espongono le donne ad un alto rischio di contrarre l’AIDS(18). In Congo i contadini della zona del Bushi “affermano senza grosse remore che le loro donne sono i loro trattori”(19) e le trattano come macchine di fatica in molteplici occasioni, proprio come l’assistente sociale Roida Kimbe ha riferito riguardo alla popolazione tanzaniana. Le storie riportate sono la generalizzazione di una situazione che appare mutevole e differente a seconda dei contesti. Nelle città la condizione delle donne sta migliorando, sia pur lentamente, in maniera diversa dalle zone rurali. Nei villaggi tradizioni e concezioni antiche non sono intaccate dallo scorrere del tempo. Nei centri urbani, invece, grazie ad un elevato tasso di scolarizzazione e alle informazioni che i nuovi mezzi di comunicazione offrono e diffondono, le donne sono più consapevoli della loro situazione e sono nati anche alcuni movimenti femministi. Il femminismo africano porta in uguale misura sia problemi che soluzioni soprattutto per l’atteggiamento delle attiviste.
Un modo di operare cerca di formare coalizioni tra donne già affermate in una società maschilista, ma non offre una reale solidarietà con le fasce più emarginate e povere. Ad esempio, il Women Leadership Training Programme (WLTP) è un corso che educa candidate per poter occupare le più alte cariche a livello regionale e statale. Pur lodevole, solleva una problematica di relazione tra i due sessi. In Tanzania una donna con dell’autorità è vista con scetticismo, il voler rompere così bruscamente con il passato è un’azione rischiosa. La logica dello scontro e il terreno su cui combatterlo sono sbagliati. Pur dimostrando in maniera efficace che le donne possono svolgere con serietà e competenza tutti i lavori ed incarichi, si afferma anche che solo i compiti riservati ai maschi sono rilevanti: implicitamente si degradano ancora di più le tradizionali occupazioni femminili. Non si può mirare a raggiungere il potere degli uomini per poi ridurli a una posizione di inferiorità, per controbilanciare con il passato.
Il cambiamento in atto è un processo lento e difficile sotto molti punti di vista. Dal 1976 lo swahili è la lingua ufficiale della Tanzania; se da un lato ciò ha contribuito a eliminare le lotte interne tra tribù e a favorire la costruzione di una pace duratura, dall’altra ha diminuito le possibilità della gente di avere scambi con l’ambiente esterno. Non conoscendo l’inglese è arduo approfondire la conoscenza di argomenti ad esempio utilizzando Internet, e quindi un apprendimento con tali media moderni è parziale e a volte inutile, se non dannoso. Anche le pubblicazioni su mezzo stampa nella regione sono poche, per lo più libri scolastici e opere religiose, mentre i giornali locali in lingua trattano prevalentemente di avvenimenti mondani e cronaca, non si soffermano a lungo su più scottanti temi d’attualità. I giornali in inglese trattano e sollevano agli occhi dell’opinione pubblica questi problemi, ma ancora una volta è la minoranza della popolazione a poter fruire di questi stimoli culturali. Anche i giornalisti sono influenzati dalla cultura e non si sono sempre liberati di determinati schemi mentali maschilisti. Un articolo del quotidiano locale Daily News (20) sul problema della diffusione dell’Aids trattava in particolare il problema della relazione che si instaura tra moglie e marito, sulla difficoltà di poter richiedere l’uso del preservativo, richiesta a volte sentita come un insulto dal coniuge. Le ultime righe ammonivano i mariti ad essere più aperti, ad ascoltare e cercare di capire le proprie mogli, ne consigliava l’uso qualora il marito tradisse la moglie. Non una parola era spesa a favore della fedeltà, del significato del vincolo matrimoniale, della serietà con cui deve essere vissuto e della considerazione di cui le donne hanno il diritto. Ancora, in un altro caso, pur denunciando la situazione delle donne, un giornalista ammoniva le stesse di non prendere prestiti dagli enti di credito finché non avessero avuto delle conoscenze in campo economico, altrimenti avrebbero incontrato solamente fallimenti. Il messaggio del titolo era “Donne: non chiedete prestiti finché…”(21) ma le dichiarazioni, dato il sistema scolastico imparziale e le minori opportunità offerte al sesso femminile, erano un appello all’immutabilità dello stato delle cose più che un sensibilizzazione efficace.
La sensibilizzazione in Tanzania, effettuata tramite convegni, pubblicazioni e campagne, stimola un empowerment delle donne, ma forse è attuata con modalità sbagliate. Infatti molte delle grandi manifestazioni che si svolgono in Tanzania non sembrano avere un corrispettivo effetto nella realtà. Il primo dicembre è stata celebrata la giornata mondiale per la lotta all’Aids intitolata “Donne, ragazze e HIV/Aids”. In questa occasione sono fiorite sul territorio molte iniziative. La Tanzania Media Women Association (TAMWA) ha diffuso una ricerca su questi aspetti della vita nello stato. La Women in Law and Development in Africa (WiLDAF) ha indetto nello stesso periodo 16 giornate di lotta alla violenza sessuale. La Action Aid Tanzania (AATz) ha lanciato il 29 novembre uno studio sugli abusi subiti dalle alunne delle scuole primarie. I membri della Coordinator of the Woman Rights Organization (KIVULINI) hanno organizzato alcuni convegni per sollecitare soluzioni al problema della violenza subita dalle donne. Probabilmente sono attività che nascono e si sviluppano troppo in alto, non raggiungono la popolazione, ma si rivolgono a piccoli gruppi di esperti e alla parte della popolazione che già è sensibile a determinati argomenti e problematiche. Delle manifestazioni popolari, rivolte alla gente e dalla stessa realizzate, avrebbero un effetto più potente. Un tale approccio alla questione aiuterebbe inoltre a sottolineare i problemi vissuti dalle donne anche nella parte maschile della popolazione, poiché questa non può essere assolutamente esclusa, è la chiave del cambiamento. Le donne devono essere coscienti della loro situazione e gli uomini devono accettare i propri doveri nei loro confronti. Solamente dopo aver risolto questo primo ostacolo, una martellante e diffusa sensibilizzazione può far sì che i diritti non vengano accettati solamente come un elemento estraneo, importato da una cultura colonizzatrice, ma che vengano vissuti e interiorizzati realmente.
La storia recente insegna che è difficile introdurre modifiche nella società patriarcale, poiché gli uomini negli anni hanno accolto gli elementi delle culture straniere che contribuivano a stabilizzare e rafforzare la situazione e hanno rigettato gli altri. “Nel retaggio religioso-culturale africano ci sono i semi della reificazione e dell’emarginazione delle donne: le politiche coloniali si sono limitate a favorire questo processo, e ci sono riuscite nella misura in cui ciò tornava a vantaggio degli uomini africani”(22). I tanzaniani hanno adottato un comportamento simile anche in ambito religioso appropriandosi e sottolineando principalmente gli aspetti maschilisti (o in tale modo fraintesi) delle maggiori religioni presenti in Tanzania, soprattutto di quella musulmana e di quella cattolica. Per quanto riguarda la fede cattolica, da una parte le missionarie laiche e consacrate hanno mostrato alla popolazione una nuova tipologia dell’essere donna, sono soggetti che hanno competenze, autonomia e potere decisionale. La composizione della scala gerarchica del clero, invece, è stata interpretata negativamente e strumentalizzata. Tutti i posti importanti all’interno della Chiesa cattolica sono occupati, senza alcuna eccezione, da maschi. Questo aspetto è vissuto, oggi come in passato, come un consolidamento della mentalità patriarcale poiché è un atteggiamento accettato anche dai preti occidentali, quindi ritenuto giusto. A causa di questo e dell’attitudine umana a rileggere ogni informazione alla luce del proprio vissuto, i tanzaniani hanno spesso frainteso il messaggio della Bibbia, soprattutto riguardo alla relazione tra i due sessi. Alcuni passi, come la Lettera agli Efesini e la versione della creazione in cui la donna discende dall’uomo, sono stati letti come una spiegazione della realtà: anche Dio afferma che la donna è succube dell’uomo. La versione della creazione nella Genesi in cui si afferma l’uguaglianza dei sessi è ignorata, non viene sottolineata e spesso neppure scelta per le letture. La Chiesa è chiamata ad affrontare questi problemi con urgenza oltre che a ripensare anche alla sua formazione e composizione interna: se tutti i più alti funzionari, e quindi coloro che hanno un più illuminato rapporto con Dio, sono maschi, per alcuni questo può significare che tra questo sesso e Dio c’è un legame qualitativamente superiore, privilegiato. Anche la poligamia è un elemento che sopravvive, a volte accettato con silenzio dalla chiesa locale, e che contribuisce a svilire il vincolo del matrimonio nonché a sminuire il ruolo della moglie.
Anche il linguaggio ha portato alla creazione di stereotipi oppressivi. L’inadeguatezza della lingua italiana in materia spirituale si esemplifica nell’obbligatorietà di assegnare a Dio il genere maschile, pur non essendo Dio maschio. Nella lingua swahili non esistono solo i generi maschile e femminile, esistono parole maschili, femminili o neutre e il sostantivo Mungu (Dio) rientra tra queste ultime. La sua appropriatezza si vanifica però quando il termine viene accostato a parole come “padre”, assolutamente maschili, o quando con altri espedienti si ripete lo stesso errore compiuto in Occidente, dove tramite un’iconografia e una retorica superficiale a Dio è stato infine dato un genere sessuale nell’immaginario collettivo.
Don Oreste Benzi esalta la figura femminile scrivendo che “l’aspetto proprio della donna è l’oblatività assoluta”(23), mentre lo scrittore Tagore ne esalta la perfezione, contrapposta alla incompiutezza maschile, poiché “per secoli la Natura le ha assegnato sempre lo stesso compito ben definito e via via l’ha adattata ad esso”(24). Entrambi i pensatori sono profondamente coscienti della critica situazione che le donne nel mondo devono subire e sopportare. A livello teorico queste affermazioni sono accettate e condivise anche in Tanzania, ma nella realtà dei fatti non contano nulla. Qui l’oblatività e la forza creatrice sono diventate debolezze sfruttate dagli uomini per sottomettere le donne. Lo spirito di sacrificio per i figli e la comunità sono i mezzi non per rispettarle ma per affossarle in una condizione miserevole, da cui non possono o, per il bene comune, non vogliono sollevarsi. Anche il concetto di complementarietà nella coppia viene frainteso poiché la donna esiste in funzione dell’uomo ma non viceversa.
Le diversità tra i sessi esistono ed hanno ragione di essere solamente poiché portano alla loro unione. Inoltre, alcuni atteggiamenti non appartengono propriamente a un solo sesso. L’altruismo, l’attenzione e la generosità sono magistralmente esemplificati nell’amore materno così come la forza in quello paterno: tali virtù non si devono però confinare solamente al soggetto della madre o del padre, sono doti che vanno diffuse all’interno di tutta la società, non a solo appannaggio di un sesso, ma come risorse per ogni singolo membro della comunità.

2.5. Mama Huzuni
Gli sposi novelli, dopo il matrimonio, vengono comunemente chiamati non più con il loro nome di battesimo ma con gli appellativi mama e baba (mamma e papà) che saranno seguiti, dopo il parto, dal nome del primo figlio. Sono socialmente importanti perché contribuiscono a continuare la specie e rafforzano il clan o la tribù. Inizialmente sono visti e riconosciuti come coppia creatrice, in seguito sono identificati con la loro opera più importante: i figli. “L’aspetto padre-madre prevale sull’aspetto sposo-sposa, è la fecondità che fa gli sposi veramente e pienamente tali.”(25). Mentre il padre riveste però anche altri importanti ruoli all’interno della famiglia e della società, la madre rimane ancorata solo al ruolo di madre. Le donne sono viste ed esaltate come creatrici, ma nella realtà quotidiana questo non porta loro alcun vantaggio: la donna non è seguita ed aiutata, a livello psicologico e in altri modi, durante il concepimento né dopo il parto, e nemmeno in altre occasioni più o meno traumatiche. Non è allora convincente l’idea che in Tanzania si abbia un profondo rispetto per un nuovo nato. Questo potrebbe essere vero se fosse possibile scindere l’atto del concepimento, il parto e la madre dal neonato. A volte il sesso è praticato in modo violento, la donna è percossa, torna al lavoro dopo pochissimo tempo in seguito al parto: tutto il rispetto per una nuova vita che nasce è dato al neonato, ma non è concesso alla partoriente.
Il limite che questa usanza linguistica esemplifica è la parzialità con cui vengono considerate le donne in generale e qui risiede il problema delle donne in Tanzania. Mamma dolce, mamma cattiva, moglie buona, moglie incapace, puttana, partoriente, schiava, contadina, cuoca: la donna viene sempre identificata con uno degli aspetti che le è proprio o le è imposto. In nessun caso, però, le è data la profondità e la complessità che spetta a ogni essere umano. Non è mai considerata semplicemente una persona.

Note:(1) Kiswahili, G. L. Martini, E.M.I., 1984, Bologna, pag. 79
(2) Intervista alla professoressa Hadija.
(3) The Express, 2-8 dicembre 2004
(4) Daily News, 3 novembre 2004
(5) The African, 3 novembre 2004
(6) The Express, 9-15 dicembre 2004
(7) Sunday Citizen, 5 dicembre 2004
(8) Wahehe, E. Crema, E.M.I., 1987, Bologna
(9) Famiglia e matrimonio in Africa interpellano la chiesa, V. Mulago in Radici africane e fede cristiana, B. D’Avanzo, EDB, 1992, Bologna
(10) Ibid. pag. 168
(11) Dichiarazione di una donna tanzaniana sposata con un medico italiano, che attualmente vive in Italia
(12)The Express, 2-8 dicembre 2004
(13) The Guardian, 16 novembre 2004
(14) Daily News, 30 ottobre 2004
(15) A padre Romolo è stato conferito l’esorcistato in maniera ufficiale dal Vescovo nel 2000 e opera nella zona di Iringa
(16) Kiongozi cha sheria, M. E. Mhoja, Friedrich Ebert Stifung, 2003, Dar es Salaam
(17) Korogocho, A. Zanotelli, Feltrinelli, 2003, Milano, pag.58
(18) Guarire fino in fondo, E. Garruti M. M. Rossi A. Pari S. Talacci, E.M.I, 2004, Bologna
(19) Missioni Consolata, mensile, numero speciale monografico ottobre-novebre 2004, pag. 54
(20) Daily News, 30 ottobre 2004
(21) Daily News, 4 novenbre 2004
(22) Donna nera, M. A. Oduyoye pag. 275 in Percorsi di teologia africana, R. Ghibellini, Queriniana, 1994, Brescia
(23) Gesu` è una cosa seria, Don Oreste Benzi, Mondatori, 2004, Milano, pag. 194
(24) Prose, poesie e pensieri, R. Tagore, ED, 1983, Napoli, pag. 154
(25) V. Mulago, op. cit, pag. 166

Fonti:

-Intervista alla professoressa Hadija presso la Baptist School in Iringa
-Intervista a Roida Kimbe, assistente sociale
-Intervista a Sigfrid Mapunda, membro della ONG Human Rights, preside della scuola di Wilolesi, membro della ONG Gruppo autoaiuto legale e sostegno per donne e bambini
-Intervista a Laila Simoncelli, membro dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Responsabile della zona Tanzania
-Intervista a Suor Zita, missionaria della Consolata

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