Caschi Bianchi Tanzania

Viaggio a Kigoma

Visita all’area di Kigoma, dove centinaia di migliaia di profughi Burundesi e Congolesi sono presenti da anni, sistemati in campi posti sotto stretta sorveglianza del governo.

Scritto da Federica Federici e Andrea Pagliarani, Casco Bianco e volontario a Iringa

Siamo fermi alla stazione di Dodoma, capitale politica della Tanzania. Un bus “scalcinato” ha viaggiato per 12 ore quasi ininterrotte dalla città di Iringa fin qua. La stazione è a dir poco affollata. Sono le 17 di un caldo pomeriggio africano, alle 19 il treno dovrebbe partire ma solo all’1 di notte arrivano i primi segnali, il treno si muove. Al suo interno neppure una luce. Il temporale ci accompagna per buona parte della notte, i lampi che si susseguono rapidamente ci permettono di vedere in maniera nitida il paesaggio che questa antica ferrovia-frutto della colonizzazione tedesca-attraversa.
Le prime luci dell’alba arrivano presto, riusciamo finalmente a distinguere i volti dei nostri compagni di viaggio. Ci osservano molto, siamo gli unici bianchi in tutto il treno. C’è un clima sereno, la gente è sorridente, ci sentiamo subito accolti; iniziano a farci le prime domande, da dove veniamo e soprattutto dove siamo diretti, rispondiamo Kigoma (città sul lago Tanganika al confine con Burundi e Congo), Jeffrey, un uomo sulla cinquantina originario di Tabora, ci dice subito:”Kigoma is a remote area”. Solo qualche giorno dopo ci renderemo conto veramente del significato di quell’affermazione. La lontananza di Kigoma dal resto della Tanzania non è solo geografica, altri fattori hanno contribuito a renderla così remota e particolare rispetto al resto della Tanzania: la sua posizione di confine ha favorito nella storia una tradizione di intensi scambi e commerci (in particolare avorio e schiavi) con i paesi limitrofi, al punto che l’identità della città appare più legata a questa storia di strette relazioni con i paesi confinanti che al rapporto con il centro del proprio stato; si potrebbe quasi dire che qua non siamo in Tanzania, ma a Kigoma, al confine con Congo e Burundi. Anche le lingue confermano ciò: oltre allo Swahili – lingua ufficiale della Tanzania – molti conoscono il francese, mentre la lingua locale qua è il Kiha, molto simile al Kirundi parlato nel vicino Burundi. Questo è probabilmente un retaggio della triste esperienza coloniale e dei confini tracciati dalle potenze europee in base a criteri di spartizione e interesse, senza tenere conto delle popolazioni locali e della effettiva distribuzione delle etnie sul territorio, per cui tribù un tempo unite si sono trovate in stati diversi.
Ciò che ci ha portati qui è l’ultimo caso – in ordine di tempo – della consolidata tradizione di interdipendenza tra questi tre paesi, e riguarda la presenza nell’area di Kigoma di centinaia di migliaia di profughi Burundesi e Congolesi presenti qui da anni e sistemati in campi posti sotto stretta sorveglianza del governo.
Dopo tre giorni di viaggio arriviamo nell’”area remota”, riusciamo a prendere i primi contatti con chi da anni lavora con queste popolazioni. Scopriamo subito che non ci verrà permesso di entrare nei campi profughi, troppo breve il nostro soggiorno rispetto ai tempi di attesa necessari per ottenere un regolare permesso, ma abbastanza per ottenere sufficienti informazioni. Ci spiegano infatti che è impreciso parlare di profughi burundesi. Bisogna distinguere tra quelli che sono qui dal 1994, scappati dal conflitto tra Hutu e Tutsi che ha coinvolto oltre al Rwanda anche il Burundi, e quelli che sono arrivati addirittura nel 1972 e che rappresentano un problema per certi versi più complesso: i burundesi del ’94 sono assistiti in tutto, cibo, sanità, scuola, alloggi, in quanto non integrati e sistemati appunto in campi profughi ma con una prospettiva di rientro – se pur problematica – nel proprio paese. I profughi del 1972 invece sono ormai abbastanza integrati, hanno il permesso di svolgere piccoli business commerciali e di lavorare la terra, vivono in “settlements” che assomigliano molto ai normali villaggi tanzaniani, tranne che per un piccolo particolare: per uscire da essi devono chiedere un permesso alle autorità. Essi si trovano in un limbo giuridico: non sono cittadini tanzaniani (e mai lo saranno), hanno lo status di profughi ma non sono assistiti dall’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) poiché ben integrati con la popolazione locale. Senza considerare poi che non hanno una terra dove tornare, il Burundi è piccolo e densamente popolato, le loro terre sono ormai in mani altrui. Il loro rientro sarebbe causa di nuovi conflitti e rivendicazioni che andrebbero a smuovere il già fragile equilibrio esistente. Questi profughi sarebbero, secondo stime del governo tanzaniano, circa 200.000, a cui ne andrebbero aggiunti altrettanti che si sono sistemati spontaneamente e illegalmente in villaggi nel nord ovest del paese, sempre secondo stime del governo.
Altra categoria di profughi è quella dei burundesi scappati nel 1972 ma che non sono arrivati qui direttamente dal Burundi; sono prima passati dal Rwanda, per dover poi fuggire in Congo, per poi fare nuovamente le valige e raggiungere i campi della Tanzania.
130.000 circa sono invece i congolesi presenti qui dal 1996, fuggiti da quella che venne definita la prima guerra mondiale africana, che ha devastato tutta la parte est del Congo – quella ricca di risorse del sottosuolo – causando circa 4 milioni di morti. Tutt’ora, nonostante le recenti elezioni democratiche, la pace raggiunta rimane una conquista molto fragile.
Qualche giorno più tardi riusciamo ad avere un incontro con un funzionario dell’UNHCR, ci spiega che i campi profughi sono interamente sotto la loro tutela e supervisione, sono loro che appaltano i lavori alle organizzazione umanitarie le quali poi si occupano dei vari servizi da erogare, che sia cibo, educazione, sanità o quant’altro.
Sembra effettivamente tutto bene organizzato e tutto sembra funzionare a dovere secondo i parametri di efficienza del modo di lavorare in occidente. Ma a rimetterci sono sempre loro…i più poveri tra i poveri! Ci sono diverse famiglie che hanno in casa persone con problemi o con handicap fisici, ma sono troppo poche, le Nazioni Unite lavorano solo sui grandi numeri. 180 bambini orfani – con nemmeno una lontana zia accanto – vivono là dentro; hanno pensato a dar loro cibo, servizi sanitari e scuola ma nessuno ha pensato a dar loro una famiglia.

Altre perplessità nascono quando ci viene detto che solo le organizzazioni responsabili di ogni determinato settore possono fornire l’assistenza necessaria, non si può intervenire a titolo personale o privato senza rivolgersi ad esse. Anche i missionari religiosi all’interno dei campi sono autorizzati a svolgere esclusivamente il loro ministero specifico, ogni eventuale necessità materiale va segnalata a chi è titolare di quel settore.
Sullo sfondo rimane sempre la riflessione su quanto questa gente, sbattuta da una parte all’altra a causa della guerra, della politica, degli interessi economici, delle decisioni prese dai più forti sulla testa dei più deboli siano veramente un bell’affare… Danno lavoro a tutto il circuito delle organizzazioni umanitarie, che vengono finanziate per intervenire in queste situazioni di emergenza e che quindi assumono sempre nuovi operatori, investono in strutture, offrono beni e servizi, e che non potrebbero esistere se non ci fosse più “mercato”, se cioè un giorno venissero a mancare guerre, profughi, emergenze…D’altra parte intervenire nelle emergenze è un dovere morale sacrosanto, andrebbe forse rivisto il metodo con cui si pensano certe operazioni, e i criteri che stanno alla base di tutto il sistema.
E’ tutto così bene organizzato al punto che ci dicono che per alcuni aspetti i profughi nei campi stanno meglio degli abitanti dei villaggi limitrofi: pare addirittura che molti tanzaniani si rechino nei campi per accedere alle cure mediche, e ai servizi scolastici che vengono offerti ai profughi, e che quando questi profughi se ne torneranno a casa sarà un problema per la popolazione della zona.

Padre Paul, missionario cattolico americano che svolge il suo ministero facendo il parroco di tre campi profughi, Mtabila I e II e Muyovosi nei dintorni di Kasulu, dice che è vero che le condizioni sanitarie sono buone, l’accesso all’acqua eccellente, non ci sono problemi di sovraffollamento e il cibo è povero ma non manca; ma la condizione di profugo è di per se una tragedia, la mancanza di libertà, lo sradicamento dalla propria terra, il dover vivere di assistenza senza poter progettare la propria esistenza, rappresentano una condizione innaturale per l’uomo, e nessuno può toglierti da questa condizione se non risolvendo alla radice le cause che l’hanno provocata. Ci dice ad esempio che molte persone vogliono tornare a casa non perché credono sinceramente che ci sia una situazione favorevole e una pace duratura ma perché è stanca di vivere nei campi, nella totale mancanza di libertà… tornare quindi nonostante le incertezze e i pericoli che li attendono nella loro terra d’origine!

E’ qui che, secondo noi, assume un’importanza di primo piano il lavoro che la Commissione Giustizia e Pace della diocesi di Kigoma sta svolgendo: due persone (ma ne servirebbero molte di più) lavorano a tempo pieno su questo progetto. Agiscono all’interno dei campi profughi e si recano periodicamente perfino in Congo e Burundi: zone di provenienza e quindi di rientro dei profughi stessi. Attraverso training e seminari, centrati sulla nonviolenza e la risoluzione nonviolenta dei conflitti, fanno incontrare la gente, facendo emergere le tensioni esistenti, e soprattutto ascoltando quello che queste persone hanno da dire, contribuendo così a risolvere molte micro problematiche e creando le condizioni per un ritorno a casa e per una possibile futura convivenza. Davvero ci è parso che il lavoro da loro svolto sia significativo, proprio per la capillarità dell’intervento e per la vicinanza alle persone, condizioni indispensabili per la soluzione di qualsiasi conflitto. Spesso si dimentica questa dimensione di base, al livello della gente comune, e di come ogni conflitto agisce nelle relazioni tra le singole persone, nelle famiglie, nei villaggi; si privilegia il discorso politico, l’analisi del conflitto a livello macro, le decisioni prese dai capi di stato, dai governi e dai negoziati tra gli stessi, come se questa fosse l’unica dimensione rilevante, come se tutto si giocasse solo lì. La storia e l’attualità dimostrano ogni giorno il contrario, pace e convivenza non sono realizzabili se non si interviene effettivamente al livello della gente, sporcandosi le mani con quello che la guerra ha generato e tentando di ricucire le immense fratture che odio, violenza e sofferenza hanno creato.

Questo vale anche e soprattutto per quanto riguarda il loro ritorno a casa. E’ iniziato dall’anno scorso, infatti, il processo inverso, dai campi profughi alle terre di origine. Tutto è condizionato ovviamente dalla situazione di sicurezza attuale, dalla fine delle guerre e dal funzionamento degli accordi di pace. Molti hanno scelto di ritornare, altri ancora no. Pare che sia la prima volta dopo molti anni che il numero dei profughi nella regione di Kigoma è sceso sotto i 300 mila, come dicono le statistiche dell’UNHCR, grazie al ritorno a casa l’anno scorso di quasi 60mila profughi. Questa tendenza dovrebbe mantenersi anche nel corso del 2007.

Nella nostra breve permanenza a Kigoma ci è mancato, e non è poco, il poter entrare nei campi e renderci conto di persona della reale situazione, così come il poter seguire più da vicino l’interessante lavoro della Commissione Giustizia e Pace della diocesi. Tutto quanto abbiamo potuto capire si basa quindi sugli incontri avuti con le diverse persone e realtà impegnate sul campo.
La speranza è che veramente, entro quest’anno, tutte le persone fuggite dai conflitti e dalle violenze che li hanno portati qua, possano fare ritorno a casa. Non sarà sicuramente un processo semplice e privo di ostacoli, per i motivi che abbiamo già accennato precedentemente. Se c’è un bisogno urgente, uno spazio in cui attori esterni potrebbero inserirsi e rendersi utili in questa situazione, è secondo noi proprio quello dell’accompagnamento: seguire il rientro delle persone nelle diverse zone, facilitare ed aiutare a ricostruire le condizioni di pacifica convivenza, intervenire sui bisogni primari e sui micro conflitti esistenti.

Note:Profughi ancora presenti nei campi

Burundi 154.406
Congo (DRC) 127.973
Rwanda 194
Misti 2.402
TOTALE 284.975

Rimpatri volontari nel 2006

Burundi 41.908
Congo (DRC) 16.503
TOTALE 58.411

(Fonte: UNHCR Tanzania, Gennaio 2007)

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