Brasile Caschi Bianchi

Salvador de Bahia

Una passeggiata quasi turistica in una città incantevole. Uno dei più grandi mercati di schiavi del passato è oggi un luogo da cartolina, ma basta scendere pochi gradini per scoprire che neanche un artista saprebbe dipingere così bene il degrado di un’umanità per cui una vita può valere 5 reais.

Scritto da Katia Cecconi, Casco Bianco a Arcuai

Salvador, la città di cui ho visto le foto un milione di volte, in riviste e cartoline di qualche bar.
La prima cosa che appare ai miei occhi sono i tanti grattacieli di questa megalopoli. Basta poco però, abbassi un po’ lo sguardo e già la realtà cambia tanto: le favelas.
I due mondi, i ricchi ed i poveri, i bianchi ed i neri, il primo ed il quarto mondo così ben collocati che neppure un’artista saprebbe trasmettere meglio questo abisso. Ma non si tratta di un’opera artistica, no, si tratta di vite umane! In alto si fanno i soldi e giù in basso si aspetta che cadano le briciole.

Mentre cammino per questa città e ne scopro i suoi luoghi, le sue vie, arrivo a Praça da Sé e guardando il mercato, l’orizzonte e l’Elevador, non posso non pensare a quante sofferenze siano state vissute qui, in questo stesso luogo dove i miei piedi da turista stanno passeggiando.
E dal Pelorinho quante persone si avvicinano a me per chiedermi soldi o per vendermi collane o le fitas della Madonna del Bonfim o iniziano a raccontarmi la loro storia. È come se la mia nazionalità mi stesse scritta in fronte.
Mi piacerebbe passeggiare um po’ e perdermi per le vie, di solito è così che mi piace visitare i luoghi, ma molti con i quali parlo mi dicono di prestare molta attenzione sia alla borsa che a me stessa. Nell’aria mi sembra di respirare un po’ di malinconia, sono ancora presenti case di architettura europea, case di colore pastello che a guardarle ora sembrano ricordare i tempi del loro splendore, in cui ospitavano banchetti e colonizzatori, ma che oggi hanno mutato la loro destinazione in ostelli o negozietti per turisti, gestiti daí discendenti di chi sbarcò qui e che per anni e secoli e generazioni non fu trattato come essere umano .

Guardo Salvador dal terrazzo di Praça da Sé, e sì che è bello l’oceano, ma quando guardo la città vedo i suoi tetti sfondati, case che non sono più tali, con una struttura scheletrica. Il mercato che nacque come luogo di “scarico” di tutta quell’umanità ridotta in condizioni di schiavitù, oggi è un luogo prettamente per turisti, c’è di tutto per la capoeira, ma nessun cartello, nessuna scritta o indicazione delle scalette quasi nascoste che conducono al piano inferiore della struttura, il luogo dove venivano collocati gli schiavi all’arrivo e dove in situazioni inumane aspettavano di essere venduti.

In tutto questo, il mio stomaco diventa debole nel vedere infinite volte quei vecchi, brutti e bavosi italiani che arrivano qui con le tasche piene di soldi a comprarsi la dignità di ragazze che si vendono a volte per disdegno di una vita misera e che intravedono in questa scelta una via d’uscita, a volte per pagarsi gli studi. Quante volte mi verrebbe voglia di consigliargli di starsene a casa a guardare la tv.
Mi dirigo di nuovo all’ascensore per risalire alla città alta, ma mi soffermo un attimo ad osservare le case senza finestre, i loro colori pastello ormai non più giovani, alcune case evidentemente non più abitabili. Chissà a cosa avranno assistito queste mura, ma a rendere ancora più carica questa immagine, ai piedi di tutto un bambino. Questo bambino di pelle scura, supino sul marciapiede a pochi passi dall’uscita dell’Elevador, sono le undici del mattino, le nuvole hanno lasciato posto ad un forte sole e chissà dove questa creatura ha trascorso la notte, forse anche lui ha girovagato per le vie del centro come tanti suoi coetanei, anche lui è andato in cerca di soldi per comprarsi la droga necessaria ad eliminare la fame e la tristezza date da un vuoto fatto di mancanza materiale e morale, casa, famiglia, carezze, rispetto. Forse anche lui come i tanti “meninos da rua” non avrebbe accettato il cibo offerto in cerca di denaro o cose da barattare al fine di procurarsi l’aiuto per sopravvivere um giorno ancora. Non stiamo parlando di un adulto che ha perso la strada, stiamo parlando di delicate vite umane.

Il senso di smarrimento mi accompagna e devo fare i conti con il colore della mia pelle. Lo stato di Bahia è quello in cui in Brasile abita la maggior parte dei discendenti degli africani, e questo fa sì che in più di una situazione io provi, almeno in parte, cosa significhi essere visti solo per il colore della pelle. Nove volte su dieci cercano di fregarti, qualcuno anche ammettendo direttamente: “Tu sei italiana, i soldi li hai!”.
Non è di sostegno sapere che anche le persone che sono nate e cresciute qui hanno paura di uscire, gli autobus di linea subiscono assalti quotidiani, una vita può anche valere 5 reais.
Nel passare in autobus vicino a certe zone della città e ad alcune favelas mi viene più volte in mente il film “Cidade de Deus”: chissà quante scene di violenza accadono quotidianamente tra quei labirinti fatti di viottoli.
Quante vite ci vogliono per togliere il veleno dal corpo di quel bambino, quante vite ci vogliono perchè lui capisca che la violenza è il seme di altra violenza, a quante sparatoie dovrà ancora assistere, quanti piccoli aquiloni dovrà ancora far volare all’arrivo della polizia, per avvisare le bande vicine, quanti notti passerà avvolto in un lenzuolo steso sull’asfalto o appoggiato ad un muro, quanti piccoli o grandi crimini compirà, quanti tagli nei suoi piccoli piedi scalzi, quante volte si continuerà a parlare ancora di questo?

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