Albania Caschi Bianchi Caschi Bianchi Oltre le vendette
Il contesto paese del progetto Oltre le vendette
Scritto da Redazione Antenne di Pace
Dalla caduta del regime comunista, durante il quale l’Albania era stato uno stato “chiuso” all’esterno per oltre quattro decenni, il paese ha vissuto un periodo di fortissima instabilità e turbolenza economica e sociale.
Nel 1991, l’Albania divenne una repubblica parlamentare e nel 1992 si svolsero le prime elezioni libere. Queste ultime furono vinte dal Partito Democratico ed il suo Presidente, Sali Berisha, venne eletto Presidente della Repubblica. Nonostante fossero state messe in cantiere importanti riforme politiche (istituzioni democratiche) ed economiche (proclamazione del libero mercato), i primi anni novanta furono caratterizzati da una forte instabilità, continui cambi di governo e di Presidenti della Repubblica. La transizione dal regime comunista alla democrazia, dunque, si e’ dimostrata piuttosto complicata perché caratterizzata da altissimi tassi di disoccupazione, corruzione diffusa, infrastrutture obsolete e fatiscenti, reti criminali pervasive ed un panorama politico molto frammentato e debole.
L’Albania non venne coinvolta direttamente dai conflitti che martoriarono l’ex- Jugoslavia negli anni ’90, tuttavia nel ’98, durante il conflitto in Kosovo si trovò a dover accogliere migliaia di profughi in fuga. Furono allestiti campi in molte zone nel Nord del Paese e il governo rispose come poté a questa emergenza che si aggiungeva, nello stesso periodo, a quelle dell’ordine pubblico, della crisi dell’economia e delle istituzioni.
All’inizio del 1997, il collasso delle organizzazioni finanziarie piramidali (prive di regolamentazione) scatenò disordini e violenze popolari, che costrinsero il Governo a dimettersi. In questo periodo, l’Albania era già il paese più povero d’Europa e con un alto tasso di criminalità. La rabbia per l’ennesimo scandalo, che bruciò i risparmi di migliaia di persone riducendoli sull’orlo della povertà, fece scatenare con violenza il risentimento dei cittadini, dando origine a un periodo di vera e propria anarchia.
Lo stato centrale perse il controllo di ampie parti del paese, e nel giro di qualche mese, il governo dichiarò lo stato di emergenza. Vennero saccheggiati numerosi arsenali militari ed i civili entrarono in possesso di un gran numero di armi, tutt’ora in circolazione. La violenza caratterizzò molte aree del paese, portandole sotto il controllo di bande e gruppi armati. In questo periodo moltissime persone approfittarono per scappare all’estero, anche con mezzi di fortuna.
La debolezza dello stato venne percepita con grande chiarezza dalla popolazione e solo con l’intervento coordinato delle forze di polizia locali e di una forza militare multinazionale a guida italiana (che impegnò 7000 uomini di cui 3000 italiani), con il compito ufficiale di distribuire aiuti umanitari, fu possibile scongiurare la guerra civile e favorire la soluzione politica della crisi, nonché stabilizzare il paese e ristabilire gradualmente l’ordine. Il crollo generale dell’organizzazione statale accentuò la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni e favorì il ricorso a norme consuetudinarie. Dal 1999 al 2009 si sono svolte regolarmente tornate elettorali. L’ultima, il 28 giugno del 2009, ha visto la conferma del Partito Democratico e del suo leader, Sali Berisha a capo dell’Esecutivo. Secondo la Commissione Europea tali elezioni, benché caratterizzate da numerose deficienze, possono essere considerate dei grandi passi avanti sulla strada della realizzazione della democrazia nel Paese.
Altre questioni tuttavia rimangono ancora aperte. La forte emigrazione interna sta portando alla crescita di agglomerati periferici attorno alle città principali e nei quali le persone si limitano a sopravvivere. La corruzione rimane un fenomeno molto diffuso a tutti i livelli, anche all’interno della magistratura e del governo.
La povertà è diffusa (almeno un quarto degli albanesi vive sotto la soglia di povertà) e il paese ha ancora una struttura economica prevalentemente agricola, praticata a livello di sussistenza e non per il mercato, in cui stenta a prendere piede una produzione meccanizzata.
L’industria non riesce ad assumere una dimensione organizzativa e tecnologica significativa che le permetta di essere competitiva sui mercati europei ed internazionali; mentre nel settore dei servizi si è sviluppata una forma di microimpresa.
Di contro, i programmi dei vari esecutivi succedutisi dal crollo del comunismo ad oggi, nonostante il passaggio da una maggioranza socialista ad una guidata dal Partito Democratico, presentano una notevole continuità nella scelta degli obiettivi prioritari di politica estera ed interna: integrazione euro atlantica del Paese (l’Albania e’ entrata nella NATO nell’aprile del 2009), relazioni preferenziali con Italia e Grecia, rapporti di buon vicinato con gli altri Stati della regione, sviluppo dell’economia di mercato, lotta alla criminalità organizzata, risanamento delle istituzioni. Con riguardo al processo di integrazione europea l’Albania nel giugno 2006 ha firmato gli Accordi di Associazione e Stabilizzazione (SAA Stabilization and Association Agreement) con l’UE, un passo importante nel quadro della politica estera e d’integrazione europea. Nel Dicembre 2010, tuttavia, la Commissione Europea ha rigettato la richiesta dell’Albania di entrare a far parte degli Stati Candidati per l’Accesso all’Unione Europea (Parere della Commissione sulla domanda di adesione dell’Albania all’Unione europea, COM(2010)680 del 9 novembre 2010).
Le motivazioni che hanno spinto la Commissione a respingere tale richiesta sono principalmente legate al non raggiungimento degli standard minimi per quanto riguarda l’efficacia e la stabilità delle istituzioni democratiche. Inoltre pur riconoscendo il potenziamento dello stato di diritto si rileva come il processo di riforma sia in larga parte incompleto ed esistano lacune per quanto concerne l’indipendenza, la trasparenza e la responsabilità del sistema giudiziario, nonché la piena realizzazione di uno Stato di diritto. Per quanto riguarda i diritti umani viene riconosciuta l’esistenza di un adeguato quadro legislativo e politico, carente nell’attuazione delle strategie e dei piani d’azione esistenti.
Per questo motivo sui diritti umani, pur formalmente rispettati, l’Unione Europea evidenzia che alcuni aspetti destano preoccupazione, tra questi: l’esercizio dei diritti legati alla proprietà (in particolare per quanto concerne la legislazione in materia di restituzione, legalizzazione e compensazione); la questione della violenza domestica, particolarmente diffusa; l’assenza di una legge globale sui diritti dei minori.
Pur non citando espressamente il fenomeno delle vendette di sangue, rispetto alla capacità di adempiere agli obblighi di adesione, si sottolinea come il Paese dovrà adoperarsi in modo considerevole e costante per allinearsi al diritto comunitario nei settori del sistema giudiziario e dei diritti fondamentali e per quanto riguarda giustizia, libertà e sicurezza, migliorando la tutela dei diritti umani e delle politiche antidiscriminazione.
Contesto sociale
L’Albania resta una continuità geografica balcanica in cui il nuovo sta tentando di prevalere su tutti i fronti, in un processo socio-economico convulso, caratterizzato da fenomeni di migrazione sia verso l’estero, le cui correnti prevalenti hanno come meta Grecia, Italia e Stati Uniti, che verso l’interno, dove un imponente processo di inurbamento crea scompensi notevoli sotto il profilo sociale, con effetti devastanti. Oltre un milione di persone si sono trasferite nell’ultimo decennio dai villaggi isolati delle montagne, in cui la sopravvivenza diventa insostenibile, ai sobborghi delle principali città del Paese. In particolare Tirana dal 1992 ad oggi è passata da meno di 100.000 abitanti a circa 1 milione di abitanti. Le grandi città del Paese solo in parte riescono a soddisfare le istanze socio-economiche generate dal processo di migrazione interna, sfruttando le risorse generate da un rapido, ma quanto flebile sviluppo economico. Questo, tra l’altro, è caratterizzato da forti squilibri territoriali e di distribuzione della ricchezza tra i diversi strati della popolazione, generando un fenomeno tipico dell’introduzione dell’economia di mercato: accumulo di gran parte della ricchezza nelle mani di pochi e aumento di casi di povertà estrema. I processi in atto generano un evidente scompenso territoriale dello sviluppo e la creazione di sacche di povertà estrema, concentrate nelle periferie delle città. L’entità di questo scompenso è difficilmente misurabile a causa della velocità dei mutamenti e gli effetti generati dai meccanismi che ne sono alla base sono destinati a durare per un periodo molto lungo. Al di là degli interventi urbanistici e del rafforzamento dell’apparato produttivo in modo da creare ulteriore occupazione, il nodo strategico da affrontare è rappresentato dall’istruzione. Il nuovo lavoro prevede livelli di conoscenze non possedute dalla popolazione residente nei sobborghi delle città e paradossalmente si presenta il rischio che ad un’alta domanda di lavoro non corrisponda un’offerta qualitativamente in grado di soddisfarla. Su un fronte diverso si pone il problema dell’ educazione al rispetto delle regole democratiche da parte delle popolazioni residenti nelle nuove aggregazioni sub-urbane, diventato strategico dopo la caduta del regime comunista, e sul quale bisogna intervenire al più presto con programmi di educazione anche di carattere informale. In pratica queste aggregazioni di da un lato si trovano in una condizione a cui non sono più applicabili le regole del controllo sociale (mores) valide nelle aree tradizionali di provenienza, dall’altro non riescono ad adattarsi velocemente alle regole dello stato di diritto del nuovo regime democratico. Da qui l’adozione della regola primordiale del “vince il più forte”, tipica della sopravvivenza in un ambiente ostile.
In questo quadro ed in assenza di uno Stato incisivo, capace di far rispettare le regole della convivenza democratica e del diritto, si è assistito alla riesumazione, con riadattamenti, di alcune norme della legge tribale del Kanun, di radice medioevale, quale strumento di controllo sociale e di regolamentazione dei rapporti tra individui nelle aree più arretrate del paese. La vendetta “obbligata” imposta dal Kanun per alcuni fatti disonoranti si è riaffermata, ma con regole sempre meno chiare, tanto che oggi le vendette di sangue coinvolgono anche i bambini maschi, che secondo la regola antica dovrebbero esserne esclusi, almeno fino alla maggiore età. Il problema genera uno scontro frontale con lo Stato e le regole di uno stato di diritto, dove la forza della tradizione rende difficile l’affermazione di queste ultime. Le istituzioni sono in qualche modo atone rispetto a questo aspetto della vita sociale del Nord del Paese, ma la società chiede una sempre più profonda attenzione al fenomeno, perché libererebbe molte famiglie e solleverebbe la cappa di pesante arretratezza che questo determina.
Il progetto si occupa in modo puntuale di questo fenomeno che condiziona la crescita del Paese, determinando particolari e pesanti effetti sociali nell’area Nord dello stesso. Tra questi rientra la sicurezza personale, obiettivo primario delle città di tutta Europa.
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