• Cb Apg23, 2008

Caschi Bianchi Kenya

Lasciamo vivere la speranza

Dietro l’intolleranza, che spesso i potenti fomentano per i loro egoistici interessi personali, cova la cenere della vita quotidiana di persone che vivono insieme, senza rendersi conto di essere per questo segno di speranza. Anche nella violenza del Kenya post elezioni, come testimoniano i ragazzi del carcere minorile di Camiti.

Scritto da Giancarlo Pieretto

Sono a Nairobi, capitale del Kenya, nello specifico a Soweto, uno dei tanti slum, baraccopoli, della capitale.

Sono seduto nel salottino al secondo piano della nostra baracca nel cuore di Soweto e indosso il naso rosso da clown, che mi è appena arrivato con una lettera dall’Italia e che spero mi aiuti a raccontare qualcosa di buono. Non sono un clown, non lo sono mai stato o forse in realtà ognuno di noi a suo modo un po’ lo è, però questo naso rosso in altri momenti della mia vita mi ha aiutato ad esprimere ciò che avevo nel cuore, ma che non avevo coraggio di pronunciare a parole.

Vivo a Soweto da due mesi e mezzo, precisamente dal 10 dicembre 2007, e perciò ho vissuto in pieno tutto il clima delle ultime elezioni presidenziali in Kenya, a partire dalla campagna elettorale, per proseguire poi con le elezioni del 27 dicembre e soprattutto con la violenza esplosa nel post-elezioni e tuttora in atto nel Paese.
Vivo qui come casco bianco in servizio presso la Comunità Papa Giovanni XXIII e tra i nostri mandati c’è anche quello di antenne di pace, cioè essere proprio come delle antenne sul territorio, che hanno la funzione sia di ricevere e captare notizie, emozioni e sensazioni, ma anche e soprattutto che siano poi in grado di trasmetterle a loro volta per poter sensibilizzare il pensiero comune a partire dall’esperienza di vita personale.

È da un po’ di settimane che mi chiedevo come

sia possibile non riuscire a trovare le parole

per esprimere la situazione che stiamo vivendo

in Kenya in questi mesi.

Ora trovo la forza di dare il mio piccolo contributo

e superare quel disagio che ho vissuto

in questi mesi di fronte alle ingiustizie e

povertà che ho incontrato, quel disagio

che mi impediva di trovare il coraggio

e la forza di scrivere qualsiasi cosa.

Desidero partire dalla situazione politica italiana che ho appreso essere

molto complessa in questi giorni dopo la caduta del Governo Prodi, perché mi rendo conto che pur essendo dall’altra parte del mondo le storie si ripetono e le differenze non sono poi così marcate come invece potrebbe sembrare in apparenza.

Leggo su un articolo di Internazionale del 1 febbraio 2008 queste parole scritte da un giornalista inglese che vive in Italia dal 1981: “Quant’è estenuante la democrazia quando gli ingranaggi costituzionali girano a vuoto e nessuno sembra in grado di sollevare gli occhi dagli interessi personali per guardare al bene della collettività. L’Italia è stanca della sua classe politica, del facile pietismo, delle conventicole, delle interminabili polemiche con la magistratura, della presenza costante e rissosa in tv e delle assenza sepolcrali in parlamento. È stanca dei partiti messi in piedi oggi e demoliti l’indomani, delle coalizioni, delle infinite aggregazioni e diserzioni, delle consorterie, dei clan e delle associazioni. Ma, soprattutto, l’Italia è stanca di politici che non sanno fare niente, tranne disfare quel poco che il governo precedente aveva messo in piedi (…) Ipersensibili alle rivendicazioni di gruppi e gruppetti, gli italiani sembrano ossessionati dall’idea che ogni aggregazione di individui, per quanto statisticamente insignificante, abbia il diritto inalienabile alla rappresentazione parlamentare”.
“Ci troviamo in una situazione straordinaria. L’Italia è un paese stupendo, ricco di tesori artistici incomparabili e con le città più belle del mondo. I suoi cittadini sono in gran parte interessanti, operosi, istruiti, vivaci, creativi e intelligenti. Eppure la vita pubblica di questo paese è avvelenata da una dinamica collettiva che va avanti da secoli: nessun individuo e nessun gruppo è disposto ad accettare il minimo sacrificio a vantaggio del bene comune. E il fatto che ogni italiano intelligente se ne renda conto non risolve certo il problema”.
“L’Italia ha aspettato 350 anni prima che l’avventura siciliana di Garibaldi riunificasse il paese. E un’altra sessantina d’anni prima che Mussolini si presentasse come il messia.
Oggi, grazie a Dio, le dittature non sono più una soluzione accettabile. La comunità internazionale non le consentirebbe. Stanca e disillusa, l’Italia scruta nel buio”.

Se penso alla attuale situazione in Kenya mi sembra che la storia si ripeta. E infatti, allo stesso tempo, sempre su Internazionale, leggo un altro articolo scritto da un professore kenyota e tradotto dal Daily Nation, la principale testata giornalistica del Kenya con sede a Nairobi, quotidiano che leggo spesso. Di seguito riporto per intero il suddetto articolo.

“Quando ho una nuova classe di studenti racconto sempre la storia dell’elefante e dei sei ciechi. Sei ciechi incontrano un elefante. Il primo gli tocca la coda, il secondo una zampa, il terzo un fianco, il quarto un orecchio, il quinto le zanne e il sesto… Poi i sei cominciano a discutere sull’aspetto dell’animale.
Il primo dice che è come un ramo d’albero, il secondo che è un tronco. Per il terzo invece è come una parete ruvida. Il quarto dice che si sbagliano tutti, perché somiglia a un cesto. Il quinto scoppia a ridere e dice che l’animale è come due grandi corna intagliate. Ma prima che abbia finito, il sesto lo interrompe dicendo che l’elefante sembra una lunga tromba. La morale è che la realtà può essere descritta da tante angolazioni: per arrivare alla verità è necessario metterle tutte insieme. E questo è vero più che mai per spiegare cosa succede oggi in Kenya.

Molti sostengono che a scatenare i disordini sono state le elezioni presidenziali truccate, ma questa è stata solo la scintilla. La verità è che c’erano già problemi irrisolti legati a ingiustizie storiche come la distribuzione delle terre. Poi c’è l’egoismo dei leader politici, che cercano di mantenere il potere ad ogni costo. Bisogna considerare anche un’altra angolazione: in Kenya ci sono molti giovani disoccupati, poveri e disperati, per i quali la violenza è un’occasione di rivincita. E non bisogna dimenticare la questione tribale. Quando si cominciano a discriminare le persone sulla base della loro appartenenza etnica o di altra natura, si innesca un meccanismo senza fine.
Il motivo per cui la verità in Kenya è così confusa è che ci sono sei ciechi: il presidente Kibaki (e quelli che lo circondano), il leader dell’opposizione Raila (e quelli che lo circondano), i mezzi d’informazione, la comunità internazionale, i leader religiosi e infine il popolo (manipolato). Ognuno descrive la situazione dal suo punto di vista.
La verità è che tutti facciamo parte del problema e della soluzione. Finché rimarremo prigionieri dei nostri interessi, del nostro egoismo etnico, delle nostre identità politiche e religiose, non vedremo mai la verità e non saremo mai liberi”.

Confrontando perciò la situazione politica italiana e quella kenyota ci sembra quasi di leggere le stesse dinamiche e gli stessi sintomi di sfiducia da parte di due popoli così lontani, ma in realtà così vicini.
Ma se guardo al mio Kenya, alla realtà che qui sto sperimentando e vivendo sulla mia pelle, mi accorgo che c’è ben altro e che è inutile perdere la speranza, in qualunque parte del mondo ci si possa trovare.

Tra i vari servizi che svolgo a Soweto, in questa quotidianità un po’ strana, c’è anche quello presso il carcere minorile di Camiti, il più grande del Kenya.
Martedì pomeriggio della scorsa settimana sono andato al carcere come sempre per giocare la più classica delle partite di calcio insieme ai ragazzi. E tale è stata la mia sorpresa nel rendermi conto che per chiedere al proprio compagno di squadra di passare la palla, i ragazzi non si chiamavano per nome, bensì per tribù. “Kamba, Kikuyu, Luo, Luhya, Masai,…, – i nomi di alcune delle circa 42 etnie che compongono la popolazione keniota- hapa hapa -che significa qui, cioè passa qui-”.
Questo piccolo evento testimonia come non sia possibile negare che esista in Kenya una diversità tra etnie ben presente e riconosciuta da tutti. Al tempo stesso però, vivendo l’esperienza del carcere da ormai due mesi, mi accorgo di come sia reale la convivenza tra queste diverse etnie. In fin dei conti hanno sempre convissuto tra loro e, nel vedere questi ragazzi condividere la loro quotidianità, leggo la stessa realtà e gli stessi sentimenti dei nostri ragazzi italiani, lo stesso desiderio di vivere e giocare insieme, indipendentemente dalle differenze pur presenti ed evidenti ed il fatto di essere costretti a vivere insieme dalla condizione del carcere.

Perciò, qualsiasi cosa succederà nei prossimi mesi in Kenya, in Italia o in qualsiasi altra parte del mondo, non perderò la speranza, sapendo che sotto l’apparenza di tante divisioni e di tanta intolleranza, che spesso i potenti fomentano per i loro egoistici interessi personali, cova la cenere della vita quotidiana di tante persone che invece desiderano semplicemente poter vivere insieme da fratelli e realmente lo fanno, senza rendersi nemmeno conto di essere proprio per questo segni di speranza.

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