“Tutte le religioni e le loro filosofie possono essere considerate tentativi per scoprire la natura del mondo percettibile (e di noi stessi che lo percepiamo) per comprendere il processo della manifestazione e lo scopo della vita e della morte, in modo da permetterci di trovare i mezzi per adempiere e aiutare il nostro destino. Le varie mitologie sono modi di concepire gli stati superiori o trascendenti dell’essere, rappresentati come dei e avvicinati attraverso i simboli”. Questa riflessione sulla funzione primaria delle religioni considerate come strumenti umani per scoprire e sondare la natura del mistero visibile e invisibile di cui anche noi siamo parte, una funzione peraltro analoga a quella svolta dalla ricerca scientifica, l’ho scovata tra le pagine di un bellissimo volume intitolato “Miti e Dei dell’India” di Alain Danielou.
L’autore è stato uno dei maggiori orientalisti del Novecento e, lasciata l’Europa nel 1937, alla vigilia della catastrofe del conflitto mondiale, ha vissuto per 25 anni in India. L’idea da cui nasce questo suo volume è quella di raccogliere elementi per comprendere la concezione induista del Divino, che si esprime attraverso un avvicinamento molteplice al problema del sovrannaturale, simbolicamente rappresentato dalle oltre 300 milioni di divinità del Pantheon induista, e i pericoli insiti nella concezione monoteista che l’autore considera una soluzione eccessivamente sbrigativa e dogmatica per spiegare l’inspiegabile.
Tra le grandi religioni monoteistiche e quella induista la sua preferenza va alla seconda, perché nel corso della meravigliosa ricerca del significato del mondo, quest’ultima ha assunto un atteggiamento maggiormente comprensivo in quanto per principio lascia le finestre spalancate sulla molteplicità dei punti di vista, rappresentati in varie forme di divinità, a differenza del principio del Dio unico presente nelle prime. Critica le sette fondamentaliste che si sono sviluppate anche tra gli indù: basti pensare al fondamentalista che uccise il Mahatma Gandhi o alla violenze che ogni giorno i gruppi induisti compiono contro i musulmani, un fenomeno che l’autore descrive in modo lapidario con queste parole: “anche in India come altrove la superstizione e l’ignoranza hanno preso il sopravvento sulla mente illuminata”. Tuttavia resta convinto che l’approccio induista al divino, tra i più antichi e complessi che siano stati sviluppati dall’uomo, abbia nel Dna una maggiore predisposizione ad accettare le diverse spiegazioni che l’uomo cerca di dare al problema insolubile della verità ultima.
Ad esempio un induista letterato a differenza di un ebreo o di un musulmano di fronte al Gesù venerato dai cristiani, non dirà che quello è un falso profeta o un profeta ma non il figlio di Dio, bensì dirà che Cristo è una delle tante incarnazioni di Vishnu, considerando Vishnu non come un Dio personale appartenente soltanto ad una religione particolare ma come la rappresentazione di un principio universale, quello dell’energia preservatrice, “inevitabilmente rappresentato in ogni teologia, in ogni codice di simboli religiosi, presenti in tutte le lingue con parole che indicano non solo nomi ma anche azioni e qualità”. In fondo questa è solo metafisica, sono parole e concetti. Il piano pratico della religione è composto invece dalle azioni ispirate dalla fede e dalla condivisione di certi valori. E su questo piano quello che davvero conta in ultima istanza è l’individuo con la sua coscienza e la sua esperienza. Molto meno le differenze filosofiche del sistema culturale all’interno del quale è cresciuto e dal quale è stato influenzato.
Quindi anche se sul piano metafisico può sembrare che la religione induista lasci maggior spazio ai diversi approcci umani alla comprensione del mistero e alla sua diversità, sul piano pratico tra i suoi seguaci ad esempio è particolarmente facile trovare casi di intolleranza cieca verso quella che tra gli uomini viene chiamata diversità.
Qui in missione molti dei bambini con qualche disabilità sono stati precedentemente abbandonati da genitori induisti, che purtroppo considerano la nascita di un figlio portatore di handicap come una disgrazia e una punizione divina.
Così come è palese che l’appartenenza ad una religione monoteistica non rende il fedele automaticamente intollerante verso ogni altra forma di rappresentazione del divino o verso i seguaci di un’altra forma di confessione religiosa. Anzi.
Mi basta pensare alle illuminanti parole di Franca, missionaria qui in Bangladesh con la Comunità Papa Giovanni XXIII da ormai una decina di anni insieme a Rudy e Sara, che in una lettera per un’adozione a distanza di un bambino indù, Luca, nato con gravi malformazioni genetiche agli occhi, alle braccia e alle mani, scrive:
”I parenti che ce l’hanno portato ci hanno detto che i genitori alla sua nascita si sono separati.
Non abbiamo verificato se sia vero o no, però è vero che gli indù più poveri vivono l’handicap come una disgrazia e la colpa ricade sempre sulla donna. Ma è anche vero che non hanno i mezzi per provvedere alle cure necessarie. Non sta a noi giudicare ma sta invece a noi accogliere il piccolo.“
E così, mentre condivido la vita comunitaria della missione qui in Bangladesh, rimango incantato dalla complessità dell’uomo, della società e della cultura, e l’unica cosa che cerco di fare è stare con gli occhi e le orecchie ben aperte, perché ogni cosa sotto questo cielo racchiude sempre contemporaneamente qualcosa di buono e di cattivo.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!