Come volontarie appena arrivate in Perù, ancora non sapevamo cosa aspettarci. Ma l’attesa spesso gratifica e a meno di una settimana dal nostro arrivo ci comunicarono che alle 4 del mattino avremmo iniziato il nostro percorso nell’antica Valle Sacra degli Inca. Ancor prima che il sole sorgesse tra le montagne di Cusco, il nostro viaggio iniziò. Stretti stretti in un camion ci avviammo verso vallate immense che con l’inizio della stagione delle piogge ricominciavano a prendere colore. Così, a ritmo di cumbia e canzoni folcloristiche su quanto la mujer faccia soffrire le peggio pene d’amor all’uomo, iniziammo a percorrere curve non ancora asfaltate. Il paesaggio era magnifico, ma la strada non tanto.
Il cammino diventava sempre più interessante, soprattutto grazie al nostro compañero Lino, grande historiador e amante della civiltà Inca, che con i suoi molteplici racconti ha allietato il lungo viaggio. Nella strada verso Huilloc, nostra meta finale, s’intravedeva la splendida organizzazione degli Inca, ancor oggi perfettamente funzionante. Il vecchio popolo, infatti, fu capace di sfruttare la naturale pendenza delle montagne per inventare il cosiddetto sistema del terrazzamento, metodo ancor oggi usato sia per la conservazione del suolo durante la stagione delle piogge che per variare la produzione agricola sfruttando la diversa altitudine delle montagne. La ricchissima produzione agricola di papas (patata) e choclo (mais) è infatti ancor oggi la base per il sostentamento di molte comunità rurali, le quali insieme ad altre tecniche, quali il baratto, resistono alle moderne forme di commercio. Inoltre, tra le comunità della Valle Sacra, ci spiega Lino, vige una vera e propria politica del “buon vicinato”, in cui l’attuale concorrenza capitalista è plasmata da un pacifico interscambio di prodotti agricoli, tessili e di origine animale.
Continuando a percorrere le molteplici curve del distretto di Urubamba, la curiosità di raggiungere la meta finale era sempre più forte non sapendo cosa avremmo incontrato. Ma il Perù non smette mai di sorprenderci. Ci ritrovammo di colpo in un’altra realtà fatta di magnifici vestiti e cappelli adornati con coloratissimi fiori. Huilloc è una comunità ancestrale che ancora oggi conserva le sue tradizioni in cui la Pachamama, la Madre Terra, ha un ruolo centrale nella vita di ogni membro.
Nonostante l’assoluta bellezza e l’incredulità di essere circondate da alti picchi andini e coloratissimi campesinos, le prime difficoltà non vennero a mancare. Infatti, non parlando Quechua, lingua locale ed unico metodo di comunicazione con le comunità della Valle, approcciarci alle persone risultò piuttosto difficile. Tuttavia, la barriera culturale e linguistica fu immediatamente smantellata dalla dolcezza e dalla curiosità dei tanti bambini che giocavano per la strada principale o che erano in spalla alle proprie madri.
Come in molte comunità rurali del Perù, anche a Huilloc la popolazione cucina con focolari a fuoco aperto e sistemi di cottura tradizionali a base di biomassa, i quali non risultano sostenibili né per la salute umana né per la salvaguardia del medio ambiente. Infatti, tali cucine, oltre a consumare alti quantitativi di legna, portano alla morte prematura di circa 4.3 milioni di persone in tutto il mondo. L’inalazione del fumo e delle polveri fini è la causa principale di gravi malattie alle vie respiratorie e agli occhi.
È partendo da questo contesto che Caritas ha deciso di implementare un progetto volto, da un lato, a sensibilizzare la comunità circa gli effetti negativi dell’uso di focolari tradizionali, e dall’altro, a promuovere la costruzione di cucine migliorate. Il modello elaborato da Caritas e certificato dal governo peruviano prevede l’installazione di una canna fumaria che permette di espellere tutti i fumi nocivi dall’ambiente. Inoltre, l’innovazione di tale cucina si ritrova nell’incontro armonioso tra il tradizionale e il moderno, poiché, pur mantenendo la sua originale struttura in fango, paglia e mattoni, introduce la presenza di due fornelli e un forno a legna.
Tuttavia, l’installazione di tali cucine dà luogo a una delle più profonde contraddizioni con cui ci siamo scontrate. Se da un lato, le famiglie accolgono a braccia aperte l’opportunità di un miglioramento per la loro salute, dall’altro, non rispettano il loro compromesso. Spesso ci è infatti capitato di entrare in alcune case e ritrovarci con cucine mai usate. Di fronte a tale realtà, ovviamente la domanda sorge spontanea: perché continuano a cucinare con i focolari tradizionali quando hanno a disposizione una cucina non dannosa alla salute della propria famiglia?
Questa domanda, che all’apparenza sembra così semplice, cela in realtà un grande dilemma etico della cooperazione internazionale: fino a che punto è giusto insistere per cambiare usi e costumi di popolazioni ancestrali per raggiungere un fine nobile quale il diritto alla salute?
Dopo tante discussioni e riflessioni, siamo giunte alla conclusione che: seppur il fine sia onorevole e universalmente accettato nel mondo occidentale, il rispetto della persona e delle sue relative usanze non deve mai mancare. L’avere priorità diverse dalle nostre, quali focalizzarsi sul presente piuttosto che preoccuparsi costantemente del futuro che verrà e delle conseguenze delle proprie scelte sulla salute, non implica cadere in errore. Si tratta di una continua danza cosmica fatta di deboli equilibri che solo possono nascere dall’ascolto, dal dialogo e dall’accettazione di risposte diverse da quelle sperate.
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