Check point all’alba
Il racconto dell’alba trascorsa assieme ai lavoratori palestinesi che attraversano i varchi per recarsi in Israele a cercare lavoro
2410 persone sono passate stamattina al check point di Betlemme in due ore e tre quarti, dalle 3.55 alle 6.40. “Una buona media rispetto al solito” ci racconta un volontario dell’associazione Ecumenical Accompaniment Programme in Palestine and Israel (EAPPI), che monitora il check point due volte a settimana. “A volte restiamo qui fino alle 7.45 – 8 per lo stesso numero di lavoratori”.
Ogni giorno circa 2500 persone si recano in Israele a lavorare, ogni giorno impiegano almeno un’ora per attraversare il muro dell’apartheid che separa Betlemme da Gerusalemme.
Il check point apre alle 4 ma già dalle 2 di notte ci sono centinaia di persone in attesa, soprattutto coloro che lavorano in luoghi lontani come Tel Aviv ed Haifa.
Arriviamo al check point alle 4.45, quando è ancora buio, quando Betlemme e Beit Sahour sembrano dormire tranquille. Invece, per vedere una realtà diversa, basta spostarsi di pochi chilometri e raggiungere il check point di Betlemme, dove migliaia di lavoratori attendono in coda il proprio turno per poter passare al di là del muro, in Israele. Già da lontano sentiamo le urla degli uomini, urla disumane o di un’umanità sfinita, che provengono dalla gabbia in cui vengono quotidianamente chiusi i palestinesi. Ci mettiamo in coda per condividere, almeno per un giorno, il loro quotidiano viaggio per raggiungere il posto di lavoro. Sono principalmente persone che lavoravano in Israele già prima della costruzione del muro di separazione e che hanno mantenuto il loro permesso di lavoro. Tuttavia si tratta di permessi della durata di pochi mesi e validi dalle 5 alle 19; ogni ingresso o uscita dopo questi orari è vietato, pena il ritiro permanente del permesso.
E’ difficile descrivere com’è fatto un check point, nemmeno l’uomo più fantasioso e spietato potrebbe architettare qualcosa di più terribile. Ogni giorno i lavoratori attendono almeno un’ora in grate di ferro larghe circa un metro e mezzo, schiacciati gli uni sugli altri, all’esterno. Una tettoia spesso rotta o bucata non li protegge dalle intemperie, dal freddo, dal sole cocente, dalla pioggia. Questo percorso dura circa 100 metri eppure sembra non terminare mai. C’è chi tenta di guadagnare tempo, entrando in alcune barre mancanti della grata oppure i più atletici saltano all’interno della coda dall’alto, dai buchi delle tettoie. Di qui le urla di coloro che attendono da ore, composti in ordine. “Vergognati, vergognati” urla un uomo sulla cinquantina ad un ragazzo magro che è riuscito a passare avanti penetrando da una fessura della grata. Altri invece ci sono abituati, “Dio lo perdoni” ripetono. Questi uomini sono trattati peggio delle bestie, viene tolta loro ogni umanità, vengono umiliati quotidianamente, fatti attendere ore senza motivo, tutto ciò appare solo come una forma di punizione collettiva. Una volta arrivati alla fine della grata c’è un tornello che viene aperto in modo non regolare, secondo il volere dei soldati, e le persone, una per una, si gettano sul tornello cercando di guadagnare un posto…ma, seppur nella confusione, c’è un ordine e un’attenzione verso gli altri compagni di sventura.
E questo è solo l’inizio: passato il tornello e il controllo di un soldato si percorre un breve tratto di strada per arrivare al vero e proprio check point, con metal detector e controllo delle impronte digitali. In questo percorso senza controlli, tra il primo tornello e il metal detector, tutti i palestinesi iniziano a correre veloci, per guadagnare anche solo un minuto, che per loro è prezioso per non arrivare troppo tardi al lavoro. E’ una scena surreale, assurda. Dopo essere stati ingabbiati per ore, i lavoratori, giovani, anziani, zoppicanti, si mettono a correre verso il secondo, più terribile e più umiliante controllo. Anche qui un tornello, attivato secondo il volere dei soldati, permette l’accesso al metal detector: come in aeroporto, borse e oggetti metallici vengono controllati con gli infrarossi mentre le persone passano attraverso un metal detector: se suona, un soldato, dall’interno di un gabbiotto, in ebraico, ordina di ripetere il passaggio senza scarpe, senza cintura. Abbiamo visto un ragazzo attraversare tre volte il metal detector cercando invano di spiegare al soldato che aveva una protesi di metallo nella gamba, mostrando il certificato medico che accertasse questa sua condizione. Alla fine, dopo essersi tolto persino le scarpe è stato lasciato passare. E così avviene ogni giorno. Quando si chiede ai soldati che cosa provano a stare lì, le risposte sono diverse. Alcune persino sconvolgenti: “Provate a mettermi nei miei panni” ci dice un soldato “la mattina mi devo sempre svegliare prestissimo”.
Ultimo controllo: i palestinesi devono esibire la carta d’identità, il permesso di lavoro e devono sottoporsi al controllo dell’impronta digitale: in questo modo sullo schermo del computer del soldato appare la foto e il tornello viene aperto.
Eccoci arrivati dall’altra parte del check point, che tuttavia si trova sempre in Cisgiordania, in quella parte di terra tra la Linea Verde e il muro che è stata rubata al popolo palestinese, con la costruzione del muro dell’apartheid. Da qui i lavoratori possono proseguire il loro viaggio, verso Gerusalemme, verso le colonie di Gerusalemme Est oppure più lontano, verso Tel Aviv. E così ogni giorno.
Ci abbiamo impiegato quasi un’ora e mezza solo per passare al di là del muro. “Oggi è una giornata fortunata” ci dicono molti lavoratori e questo ci viene confermato da un volontario dell’EAPPI.
A volte ci si impiegano anche tre ore, tutto dipende dai soldati. E così ogni giorno.
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