Febbraio – giugno 2008: cinque mesi di interviste per dare voce a ciascuna delle stelle che popolano la nuova bandiera del Kossovo indipendente. L’impegno a domandare porta a nuove domande: chi è il “perfetto oppresso” e chi il “perfetto oppressore”? Chi deve chiedere perdono e chi deve concederlo? Dove sta la verità? Quali debiti lasciano le storie raccontate e le parole scritte, e quali quelle mai scritte?
Il y a trois vérités.
Ma vérité.
Ta vérité et la vérité.
(Tierno Bokar)
Ho incontrato tante storie. Piccole storie che fanno parte della Grande Storia, quella di Stati che si fanno la guerra, che firmano la pace e dichiarano l’indipenza, quella Storia scritta o riscritta, che cambia la pelle come un serpente, che paga pedaggi e tangenti, a volte presa in ostaggio dalla lobby di turno. Una Storia che non tutti accettano dando per scontata, dalla quale spesso si sentono esclusi o riempiti di menzogne, altre volte ripagati dei danni subiti in passato.
L’idea di raccogliere quante più voci possibili è nata sotto il cielo stellato della nuova bandiera dal Kossovo indipendente. È nata percorrendo fino a tarda sera le strade di Prishtina, il 17 febbraio 2008, giorno della dichiarazione d’indipendenza, quando il caso e gli eventi della mia vita hanno voluto che prendessi parte alla nascita di uno Stato nel senso moderno del termine, nella neocapitale, piuttosto che a Prizren, a Peja o chissà dove, e che fossi alla sala stampa del Grand Hotel, quando il primo ministro Hashim Thaçi ha pronunciato davanti ai giornalisti di tutto il mondo la parola indipendenza.
Un puntino anonimo, una straniera spaesata in un fiume di gente festante, in un tripudio popolare che si è comunque spento nei giorni immediatamente successivi, quando i problemi reali hanno ripreso il sopravvento sulle apparenze di un benessere di facciata, nelle giornate di quella stessa gente troppo spesso senza lavoro o più semplicemente disillusa e senza grandi e incoraggianti prospettive di vita, che non si chiamino visa per la Svizzera, la Germania o gli Stati Uniti, o un posto di lavoro in un’organizzazione internazionale.
Se quello del Kossovo sia un percorso desueto e fuori moda, carico di populismo o invece il frutto di un preciso disegno di eventi a tappe della storia degli stati più o meno obbligate e obbligatorie, sarà il futuro a rivelarlo, in un gioco di forze, timori, aspettative, in questi Balcani dove un lumino di speranza si è trasformato troppe volte in un incendio incontrollato, e dove gli intrecci della diplomazia non sono stati mai estintori pronti a spegnerlo.
Scrivere e descrivere mi ha aiutato a sviscerare questa realtà fatta non solo di eventi mediatici e grandi nomi, ma soprattutto di relazioni umane assolutamente normali dove entra in gioco il tuo essere italiana, il tuo far parte di una nota organizzazione che diventa un lasciapassare. Ma allo stesso tempo questo diventa un filtro che indirizza la conversazione deviandola verso la formalità e i limiti di contenuto. Là dove, entrando in estrema confidenza con chi poneva le domande, le cose sono state dette “a prescindere” da timori e minacce che obbligano spesso a raccontare porzioni di verità, mi è stato domandato dall’intervistato di effettuare dei tagli di contenuto, quando le questioni diventavano molto delicate. Perché è capitato di parlare di pedofilia, prostituzione, business degli aborti clandestini, di minacce di morte. Più volte mi sono sentita quasi di tradire una storia tagliandone il contenuto. Svuotarla del suo significato più profondo. E quest’esperienza di scrittura, un’avventura per me nuova e appassionante, mi ha riempita di tanti interrogativi. Mi chiedo se si è più responsabili di una storia narrata non nella sua interezza o del narratore, le cui parole potrebbero non rendergli, per così dire, vita facile? Chi paga i debiti che si lasciano indietro le parole dette e poi scritte, chi narra o chi ascolta e poi scrive? E d’altro canto mi domando chi continuerà a pagare per quello che nessun vuole venga detto e tantomeno scritto?
Mi sono chiesta, come tante persone continuano a fare in Kossovo, chi viva dentro ognuna di quelle sei stelle, se lì dentro si senta stretto oppure comodo. Chi siano queste minoranze ed etnie di cui si continua inesorabilmente a parlare e che quelle stelle vogliono appunto, a torto o a ragione, rappresentare. Mi sono chiesta se anch’io, indagando di volta in volta dentro quelle stelle, non abbia contribuito al gioco eterno delle divisioni, dentro le logiche di meccanismi distorti e artifici etnici che talvolta i cosiddetti “internazionali” hanno contribuito ad alimentare, se non a creare.
Ho cercato di capire se la gente, dentro la propria stella ha voglia di farla brillare o di farla morire di luce propria, essendo per molti prive di valore e destinate ad essere sostituite da altri simboli ben più sentiti e radicati nelle coscienze storiche. Mi sono chiesta se non siano meteoriti scagliate ordinatamente dai grandi protagonisti esterni, che hanno deciso per il futuro di questo giovanissimo Paese.
Penso dopo cinque mesi di interviste, di non aver trovato una risposta univoca da portare con me in Italia. E forse sta nelle regole del gioco accettare che ci sono diverse verità. E che tutte insieme siano la verità, la verità dei fatti, se questa mai dovesse esistere da qualche parte. Non so se esista veramente il perfetto carnefice e la vittima perfetta, il sopraffatto e il sopraffattore. Chi debba chiedere perdono e chi debba pretenderlo o concederlo. Non so se ci si possa ridurre a polarizzare le questioni, quando le soluzioni sono troppo lontane. L’ho scoperto nei racconti semplici e spontanei, costruiti e ricercati.
Ho cercato la gente, quella di tutti i giorni, scelta nella casualità degli incontri o dentro una rete di conoscenze che ho costruito in questi mesi di permanenza. E l’ho trovata facilmente, pronta a lasciarsi raccontare, a lasciarsi fotografare, a parlare del Kossovo, della bandiera, della propria minoranza. Pronta ad aprirmi le porte di casa e del cuore. In alcuni casi è nata un’amicizia e un rapporto di stima e collaborazione che sono proseguiti nel tempo. E in qualunque lingua ciascuno abbia deciso di parlare, turco, inglese, tedesco, italiano, albanese, serbo, è stato in grado di spiegarsi, nella semplicità e nell’immediatezza di parole accompagnate da lacrime e sorrisi, e di far parlare le sue ragioni, lamentele, sogni, il suo ruolo sociale, il suo essere un attore più o meno mascherato dentro la società kossovara. L’ha fatto rispondendo alle domande che mi portavo appresso dalla nottata di riflessioni, o semplicemente seguendo un filo sottile raccolto per caso durante l’incontro. Studenti universitari e liceali, una casalinga, un artigiano, due rappresentanti politici, un’intellettuale e attivista, un sacerdote, un serbo qualunque. La storia del Kossovo, del suo passato e del suo presente, di quello che sarà questo Paese, è anche loro.
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