• Cb Apg23, 2008

Caschi Bianchi Zambia

Grace. La vita non finisce quando sul test c’è scritto positivo

Grace racconta la sua esperienza: da quando ha scoperto di essere malata ad oggi: l’attività di visita ai malati di AIDS la porta ad accompagnarli spesso alla morte. A volte sono con i familiari, a volte soli. Perché avere un figlio sieropositivo è ancora oggi una vergogna, e la povertà contribuisce a dare ancora più velocità a questo vortice.

Scritto da Claudia Corrado

Mi chiamo Grace C. K. Sono nata il 14 Maggio 1976. La mia educazione si è fermata alla classe settima, alla seconda media. Il perché non abbia completato la scuola si spiega con il fatto che non c’era nessuno che potesse sostenermi. Pagare le tasse scolastiche, l’uniforme, i quaderni. Troppo. Vivevo con mia madre, separata da molto tempo da mio padre. Lei non lavorava, solo ogni tanto riusciva a vendere un po’ di carbone. Siamo in sette nella mia famiglia, quattro maschi e tre femmine. Al momento, vivo ancora con mia madre. Sono vedova, mio marito è morto, con me è rimasto mio figlio che ora frequenta la classe decima. Spesso però salta la scuola perché non riesco pagare le tasse o a comprargli ciò che gli serve.

Nel Settembre del 2005 vengo a sapere di essere Hiv positiva. Ho l’Aids.

Tutto è nato quando quattro anni fa ho iniziato ad avere forti dolori alle gambe senza nessun miglioramento. Così, alla fine, ho deciso di andare da sola a fare il test (VCT, voluntary counselling and testing). Seppi molto presto il risultato del test. Tornai a casa da mio marito e gli dissi che dovevamo andare a fare il test, insieme, mi rispose che ero io quella malata e non lui e che se volevo ci potevo andare. Non sapeva che c’ero già stata. Era davvero difficile parlare con lui, soprattutto se riguardava quel test e la possibilità di essere Hiv positivo.
Morì con dei dolori allo stomaco nell’ottobre 2005, nell’ospedale di Saint Paul nel distretto di Nchelenge, Kashikishi.
Dopo la sua morte, subentrò un periodo ancora più doloroso e difficile. Cominciai a sentirmi stanca, ogni giorno andava peggio.

Le persone con cui vivevo mi costrinsero ad andare a fare il test un’altra volta nonostante gli avessi detto di essere sieropositiva, ma non volevano credermi. Cosi rifeci l’esame, il risultato purtroppo non poteva cambiare. Ci furono altre conferme sul mio stato di salute. I globuli rossi erano arrivati a 55 e nel mio corpo c’era una piccolissima quantità di sangue; mi fecero una trasfusione prima di mettermi sotto i farmaci antiretrovirali. Dopo circa un mese che prendevo quei medicinali, tornai di nuovo a stare male e fui ricoverata in ospedale. Questa volta, avevo contratto la Tubercolosi. Dovetti così iniziare a prendere anche i farmaci contro la TBC.
In quel periodo, negli ospedali della zona c’era stata una carenza di sacche di sangue impiegate per le trasfusioni. Nel mio corpo c’erano solamente 1,8 gr di sangue. Tutto ciò derivava dai troppi farmaci che stavo assumendo, il medico disse a mia madre di darmi solo quelli per la Tubercolosi. La situazione però non migliorava, anzi, per quattro giorni smisi di parlare, di alzarmi e non riconoscevo più le persone. Quando l’ospedale riuscì a trovare il sangue per le trasfusioni, alcuni medici decisero che doveva essere usato solo per i pazienti più gravi, chi in quel momento aveva 5 gr di sangue nel proprio corpo poteva usufruirne. Io ero arrivata ad averne 1,2 gr ma il dottore che mi visitò disse che non potevo aspettare. Così andrò dritto a prendere delle sacche di sangue per farmi delle trasfusioni. Dopo alcune settimane, ripresi a parlare un po’ ma era così difficile, la bocca era bloccata e non la usavo da tanto tempo. Da qui, iniziarono altre trasfusioni e piano piano si vedevano dei piccoli miglioramenti, ricominciai ad alzarmi e a parlare correttamente. Chiesi al medico se per favore potevo tornare a casa dalla mia famiglia e da mio figlio, disse che andava bene ma che dovevo tornare a fare dei controlli dopo due settimane. Venni cosi dimessa.
Terminai la cura per la tubercolosi, che durò circa otto mesi, dopodiché ripresi con gli antiretrovirali… questi per tutta la vita.

Sono una giovane ragazza e mi piacerebbe andare in giro e sensibilizzare i giovani sul tema dell’Aids, vorrei parlargli, raccontargli la mia storia, fargli capire come si vive con l’Hiv. La vita non finisce quando sul test c’è scritto positivo. Vorrei anche insegnarli la prevenzione ed educarli ad una vita senza rischi, io non ho nemmeno finito la terza media e mi piacerebbe molto riprendere gli studi, imparare l’inglese. Trovo molta difficoltà, soprattutto quando vado a qualche workshop dove parlano in inglese e io non capisco quasi nulla, o quando cerco un lavoro, se non sai l’inglese sei già scartata. Ora con me vivono altri cinque bambini, orfani di parenti, mia madre è anziana e non riusciamo a provvedere per il cibo, per la scuola e per i vestiti.
Da quando sono volontaria per l’HBC (1), assisto le persone che cominciano a prendere gli antiretrovirali, e ogni volta che vado in ospedale la maggior parte di loro sono giovani. Alcuni li vedo morire sotto i miei occhi ma almeno con la famiglia accanto, altri da soli in un vecchio letto con le lenzuola sporche e i topi a fianco, soli, perché senza famiglia o discriminati da essa, cacciati di casa, perché avere un figlio sieropositivo è ancora oggi una vergogna. La povertà contribuisce a dare ancora più velocità a questo vortice.
Ecco perché, c’è bisogno del contributo di tutti, nessuno escluso. Dobbiamo sensibilizzare più persone possibili, soprattutto quelle a cui è difficile giungere ai mezzi di comunicazione. Nei villaggi più remoti un tempo l’Aids non era ancora arrivato, ma ora purtroppo sta giungendo anche lì, contaminando anche quel poco che restava di puro dell’Africa. Da qualche tempo faccio anche parte dell’HBC Catholic Drama Group, una piccola compagnia di circa dieci giovani tra ragazzi e ragazze, alcuni sieropositivi, che con la musica, il teatro e la danza cercano di sensibilizzare su questo tema. Vogliamo gridare che questo male si può combattere, che anche se si è malati la voce ce l’abbiamo ugualmente e noi ne siamo l’esempio. Dobbiamo far capire che è malattia come un’altra e che si può, si deve continuare a vivere.
Ecco cosa signica per me AIDS:
A- Am
I- I
D- Doing
S- Something?
Che una persona sia sieropositiva o no, è una persona. È un essere umano. Siamo essere umani.

Note:

1. Home Based Care: programma diocesano su base volontaria che prevede visite a domicilio e assistenza ai malati di AIDS dei quartieri più marginali e disagiati di alcune città dello Zambia.

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