Fin dal 15 agosto, quando ha avuto inizio la marcia indigena in favore del parco nazionale TIPNIS e contro la costruzione della strada Villa Tunari-San Ignacio de Moxos come parte del “corridoio bioceanico” che attraverserebbe l’America Latina, l’APDHB (Assemblea Permanente per i Diritti Umani della Bolivia) ha seguito direttamente i marcisti con la presenza di una sua delegata in qualità di osservatrice. La responsabile dell’Assemblea, Jolanda Herrera, mi spiega infatti che già da tempo l’Assemblea Permanente lavorava con alcune comunità indigene amazzoniche, per vigilare che i loro diritti venissero tutelati. Aggiunge che già il 18 agosto si è inviata una lettera al governo invocando un dibattito sul tema in nome della Immagini della repressione della Marcia Indigena a Yucumo, foto di Jolanda Herrera (APDHB), Bolivia, 2011 legislazione già vigente, a partire dalla nuova Costituzione politica dello stato, approvata nel 2010, e dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro, ratificata dalla Bolivia, in cui si prevedono consultazioni e tutele speciali per le popolazioni indigene. La richiesta non ha ricevuto risposta, e così è continuato il lento e faticoso cammino di più di un migliaio di persone, uomini, donne e bambini rappresentanti di 34 comunità indigene. Anzi, ben più che faticosa, dato che l’APDHB riferisce che nel corso della marcia sono morti un ragazzino di 13 anni per un incidente e un bambino di circa 8 mesi per non avere ricevuto le adeguate cure ad una infezione intestinale; tutti i partecipanti alla marcia hanno poi sofferto una forte disidratazione, che ad anziani e bambini ha causato non poche crisi.
Nonostante questo il 23 settembre la marcia è arrivata nei pressi di Yucumo, dove un folto gruppo di cosiddetti “coloni” e sostenitori del governo si era piazzata per impedire il passaggio della marcia, che in quel punto doveva attraversare il passaggio obbligato del Ponte San Lorenzo. Da alcuni giorni, inoltre, vi era dislocato un contingente di circa 500 poliziotti, ufficialmente per impedire uno scontro tra marcisti e coloni. Il 24 settembre avviene un primo incidente: il ministro Choquehuanca, ufficialmente venuto a dialogare e a cercare una possibile mediazione, viene trasportato a forza da alcune donne che lo prendono per le braccia fino al blocco di polizia. Il gesto viene interpretato come un tentativo di superare il blocco facendosi scudo del ministro, mentre la versione dei partecipanti è che il ministro dichiarava con insistenza che non esistesse nessun blocco e che non fosse stata commessa nessuna violenza contro i marcisti. Questo ha scatenato la reazione popolare di trascinarlo a constatare con i propri occhi la situazione. A sostegno di questa versione c’è il fatto che i membri della cosiddetta “guardia indigena”, il servizio d’ordine della marcia, era davanti al ministro, e che questi è stato immediatamente lasciato libero una volta arrivati davanti alla polizia. In ogni caso il gesto, anche se interpretato come un tentativo di sequestro, non giustificherebbe quanto avvenuto il giorno successivo. C’è un dettaglio che getta una luce inquietante su quanto avvenuto successivamente: la responsabile di APDHB afferma che davanti al gruppo che ha trasportava il ministro Choquehuanca sono stati gli stessi poliziotti a retrocedere immediatamente in modo che il fronte della marcia avanzasse fino ad essere in posizione ottimale per quella che si potrebbe definire un’imboscata… L’ipotesi di una premeditata azione di repressione è purtroppo avvalorata da altri dettagli, come la presenza di agenti di polizia in incognito nella marcia.
Arriviamo però ai fatti del 25 settembre, così riportati dalla licenciada Jolanda Herrera.
La domenica era trascorsa tranquillamente per i marcisti, in mattinata molti avevano partecipato alla messa, nel pomeriggio i bambini giocavano e gli adulti discutevano sul da farsi. All’improvviso, intorno alle 16.30, un gruppo di poliziotti si è precipitato ad arrestare i membri della guardia indigena per trasportarli a forza a camionette e bus, spesso ricorrendo alla violenza, calciando e calpestando anche quelli che non opponevano resistenza e spontaneamente si gettavano pancia a terra.
Immediatamente il resto degli effettivi di polizia hanno accerchiato il resto dei marcisti accampati ed hanno iniziato il lancio dei gas lacrimogeni, incuranti della presenza di neonati, bambini ed anziani, approfittando del panico generato per cercare i dirigenti della marcia ed arrestarli. Alcune donne hanno capito questa intenzione e hanno iniziato a dare istruzioni nella loro lingua indigena di proteggere i leader; la risposta della polizia davanti a queste comunicazioni che non erano in grado di interpretare è stata molto dura: hanno chiuso la bocca a queste donne con del nastro adesivo, situazione che, oltre alla violenza e all’umiliazione subita, le ha costrette a respirare con il naso i gas lacrimogeni, fatto che si può definire come una vera e propria tortura.
Come accertato in seguito da medici legali, moltissime persone, tra cui alcuni anziani, hanno ricevuto calci e percosse; i poliziotti cercavano soprattutto i leader indigeni, ma arrestavano tutti quelli che avevano un aspetto simile all’identikit che avevano ricevuto. Uno di questi ha riportato un grave trauma cranico in seguito alla violenza della polizia.
Nella situazione generale di caos molte mamme sono state separate dai figli; una madre ha messo il figlio di 3 mesi in una tenda dell’accampamento, per ripararlo dai gas lacrimogeni, ma il suo tentativo di mettersi a difesa del bambino è stato interpretato come resistenza alla polizia, per cui è stata arrestata e portata via, mentre alcuni testimoni hanno visto la tenda che veniva calpestata e spinta in giro dalla gente che scappava in tutte le direzioni. Da questo episodio si è sparsa la notizia della morte del neonato, che purtroppo tuttora non è stato possibile verificare. Molti bambini e anziani, comunque, hanno sofferto gravi crisi respiratorie per l’inalazione dei gas lacrimogeni. Un bambino, separato dalla madre nella confusione e nascostosi dalla polizia, è rimasto solo tutta la notte a dormire nella collina circostante dove si era rifugiato.
Gli osservatori esterni, come la delegata di APDHB e quella delle Nazioni Unite, sono stati radunati da una parte e tenuti sotto stretta sorveglianza della polizia; addirittura volevano che scendessero in un fosso in modo da che non avessero nessuna visuale di quello che avveniva, richiesta questa a cui gli osservatori sono riusciti a resistere.
Le persone arrestate, poi, non hanno avuto certo un trattamento di favore: dei circa 200 bambini presenti, che per l’appunto erano stati separati dai genitori, nessuno è stato affidato alla Defensoria del la Niñez y Adolescencia (i servizi sociali deputati alla tutela dell’infanzia), e circa 50 sono stati trasferiti nei bus con gli adulti a Rurrenabaque con l’intenzione di imbarcarli in un aereo per Trinidad. Inoltre uomini, donne e bambini sono stati posti in tre gruppi separati, senza riguardo per le famiglie, e la maggior parte di loro non ha ricevuto acqua per tutta la notte.
Dopo tutto questo alcuni hanno deciso di continuare la marcia, ma molti indigeni se ne sono andati spontaneamente; una donna ha dichiarato che avrebbe preferito morire piuttosto che ricevere questo trattamento, non solo per l’umiliazione subita, ma soprattutto perché i suoi figli sono rimasti traumatizzati, non dormono e si spaventano ad ogni rumore improvviso.
Le conclusioni della licenciada Jolanda Herrera sono tre: in nessun momento i marcisti hanno cercato di forzare il blocco di polizia; l’azione di polizia è stata premeditata e totalmente ingiustificata, oltre che violenta; l’azione non ha tenuto conto minimamente della presenza di donne, bambini ed anziani, la cui integrità fisica e psicologica è stata seriamente danneggiata.
Un intervento di questo genere non si spiega con la volontà dichiarata di evitare scontri tra marcisti e coloni, che tra l’altro non sono stati oggetto di nessuna azione della polizia, né con la eventuale paura generatasi tra i poliziotti della guardia indigena, su cui erano circolate voci totalmente infondate di guerrieri sanguinari, armati di archi e frecce, quando in realtà hanno sempre e solo svolto una funzione di servizio d’ordine della marcia e di rappresentanti simbolici dell’identità culturale indigena. La repressione della polizia, così dichiara la responsabile di APDHB, si spiega solo con una volontà politica di bloccare la marcia, per ragioni economiche e politico-partitiche, visti gli interessi dietro alla costruzione della strada e la decisa volontà del presidente Evo Morales a sostenerla.
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