Sono Patrícia, ho 23 anni e da metà novembre 2017 sono in Albania a Scutari a svolgere servizio civile presso la Comunità Papa Giovanni XXIII.
I miei genitori vissero per molti anni in Brasile e gestivano una comunità terapeutica sempre per questa associazione. Dopo più di vent’anni in missione in Brasile, tornammo tutti in Italia. Io intrapresi gli studi e mi laureai. Finita l’università avevo molto il desiderio di avere un’esperienza di missione mia, scelta da me. Feci così domanda per servizio civile all’estero sempre all’interno dell’associazione dei miei genitori.
Dopo un mese di formazione in Italia, finalmente partii per l’Albania a metà novembre.
Per ciò che già avevo vissuto nella mia vita, il mio arrivo qui non mi spiazzò molto o comunque non mi mise in difficoltà come invece potrebbe essere stato per altre persone che come me hanno svolto servizio civile all’estero. Però a differenza del Brasile, questa è stata una scelta fatta in prima persona e fortemente voluta.
Sono italo-brasiliana, sono nera, ho i tratti somatici tipici delle persone che discendono dall’Africa: la caratteristica più evidente sono i miei capelli afro. Questo perché in Brasile c’è stato quello che noi in portoghese chiamiamo miscigenação, ovvero una mescolanza di razze dovuta alla storia del mio paese. Quindi per un brasiliano non esiste una definizione del vero brasiliano in base al proprio colore: siamo abituati all’esistenza di diverse etnie e alla loro mescolanza. Questo però non si rispecchia in una globale accettazione dell’altro ma esistono comunque suddivisioni razziali e pregiudizi.
Perché questa introduzione? Perché l’argomento che voglio trattare è la questione dei Magjiup (leggasi magiup) in Albania. La parola magjiup nella lingua albanese potrebbe essere paragonata al nostro termine “zingaro”, una definizione dispregiativa di un’etnia che ha un origine al di fuori dell’Albania, nello specifico provengono dall’India. Esteticamente sono molto simili alla popolazione rom: carnagione scura, capelli lisci e anche loro vivono nella zona più periferica della città, potremmo quasi chiamarli ghetti e a Scutari sono 5 i campi rom; tendono a essere molto chiusi tra di loro e li si vede molto spesso in centro a chiedere l’elemosina. Difficilmente sono integrati nella società e il lavoro che svolgono è solitamente la raccolta dei rifiuti, che poi rivendono per guadagnare qualcosa. Spesso li si vede passare con mezzi di trasporto modificati da loro: la maggior parte prende un carretto e ci attacca un motorino così da potersi muovere più velocemente, altre volte usano invece una bicicletta. Per quanto riguarda i bambini invece quasi nessuno finisce il percorso scolastico obbligatorio, alcuni frequentano i primi anni della scuola 9-vieçare (la scuola di 9 anni obbligatoria) ma molti altri sono invece “usati” per chiedere l’elemosina in centro, nei bar e anche all’interno dei negozi.
Dalla prima volta che ho iniziato a girare per la città di Scutari ho notato numerosi sguardi e commenti che inizialmente non capivo. Solo dopo un confronto con la responsabile della struttura in cui vivo, ho capito che la difficoltà da parte della popolazione albanese è l’accettazione verso questa etnia. Questo perché spesso venivo scambiata per una di loro per la carnagione simile e per un albanese non era ammissibile che una magjup potesse riscattarsi e riuscire a migliorare la propria condizione sociale e agire come una persona normalissima tipo andare a prendersi un gelato, entrare in un negozio o fare una passeggiata in centro. Con il tempo ho imparato anche a capire la lingua albanese e con questo ho iniziato anche a comprendere ciò che le persone mi dicono quando passo per le strade: il più delle volte sono commenti razzisti o riferimenti alla mia carnagione differente o alla mia capigliatura, altre volte sono vere e proprie offese dette sempre e comunque a bassa voce.
Mi ha quindi fatto riflettere molto tutto ciò. Qual è il ruolo di queste persone nella società? Come vivono tutta questa opposizione contro di loro? Io sono una volontaria e starò qui solo per un anno, loro invece no, loro vivono qui e qui pongono le loro speranze per il futuro. La società tende a rifiutarli, non studiano, non trovano lavori che non siano legati ai lavori per strada (raccolta dei rifiuti, pulizie delle strade, ecc.). A cosa può aspirare un bambino “magjup” per il proprio futuro?
Sono andata quindi a conoscere Anila Prendushi, che lavora presso il centro comunitario numero 4 a Scutari per il sostegno delle famiglie e la scolarizzazione dei bambini rom. Il comune di Shkodër ha suddiviso la città in zone per poter essere maggiormente vicino alle persone. In ciascuna zona c’è un centro comunitario che offre servizi e aiuti alla popolazione scodrana. Quello numero 4, nello specifico, si occupa delle persone di etnia rom. Per loro ci sono due progetti: Nisma, incentrato più sull’educazione e sul proporre attività extra scolastiche per i bambini; e Arsis, che offre assistenza sanitaria, fornitura di medicamenti e aiuti per la richiesta di documenti personali (cambio di residenza, tessera sanitaria, ecc.). Parlando con Anila, ho scoperto che il comune di Scutari offre servizi e propone attività molto simili a ciò che facciamo noi con le nostre famiglie e con il progetto che abbiamo, con la differenza però che i loro beneficiari sono le famiglie rom. L’obiettivo di questi progetti in primo luogo è quello di permettere l’integrazione delle famiglie rom nella società scodrana e fornire il sostegno minimo per consentire la riduzione delle differenze sociali tra i nomadi e il resto della popolazione. Grazie al progetto Nisma quest’anno si è riusciti a puntare molto sulla scolarizzazione dei bambini offrendo la possibilità di partecipare a un doposcuola. Questo ha permesso a 28 bambini di finire la scuola dell’obbligo di 9 anni. Quello di quest’anno è stato un buon risultato, infatti l’anno scorso solamente 2 persone erano riuscite a ultimare il percorso di studi obbligatorio. Le maggiori difficoltà si riscontrano quando si cerca di puntare di più sull’inclusione sociale: questo perché i rom tendono a “fare gruppo” e rimanere principalmente tra di loro e mescolarsi meno. Inoltre sono nomadi ancora adesso e quindi molto spesso ci si ritrova a lavorare con persone che stanno qui qualche mese e poi se ne vanno, per poi tornare magari l’anno dopo. In ogni caso il comune non molla e tra qualche mese aprirà un nuovo centro comunitario per offrire un servizio docce, una scuola e stare maggiormente vicino ai bambini più poveri.
Con questi due progetti quindi il comune di Scutari dimostra il suo interesse per la comunità rom scodrana e la volontà di impegnarsi affinché ci possa essere un’integrazione con la società albanese. Sicuramente le difficoltà non mancano e non mancheranno ma solo con la costanza e l’impegno che già da ora ci si mette, si può sperare di raggiungere gli obiettivi che ci si pone.
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