Benché la situazione di aiuto umanitario si sia conclusa alcuni mesi dopo la catastrofe, Caritas ha deciso di rimanere presente nel territorio, portando avanti diversi progetti di lunga durata con le comunità locali, per aiutarle a sviluppare le proprie potenzialità e preparare per la prossima calamità naturale. La città nella quale svolgo il mio lavoro si chiama Kalibo, capoluogo della provincia di Aklan, nell’isola di Panay. Questa regione delle Filippine è conosciuta principalmente per la sua vicinanza con l’isola di Boracay, una delle mete turistiche preferite dai turisti per via delle sue spiagge bianche e feste notturne. Tuttavia, una volta all’anno l’attenzione mediatica si sposta nella piccola città di Kalibo, le cui strade si trasformano in un varietà di luci, colori, maschere e danze sfrenate per un’intera settimana.
Ciò è dovuto all’importante e famoso festival chiamato Ati-atihan, una ricorrenza che da oltre 800 anni viene celebrata nell’intera isola di Panay. Il festival si svolge durante la terza settimana di gennaioe benché venga celebrato anche in diverse isole delle Filippine (con altri nomi), il più importante è sicuramente quello che si svolge nella città di Kalibo.
Storicamente, l’Ati-atihan nasce dall’incontro avvenuto lunga la costa occidentale dell’isola di Panay(nella provincia di Antique), tra alcuni migranti malesi scappati alle persecuzioni nel proprio paese, con alcuni indigeni locali appartenenti all’etnia Ati (da cui il festival prende il nome). Durante questo incontro i migranti malesi avrebbero chiesto agli Ati di potersi stanziare lungo la costa in cambio di doni e protezione. Per celebrare la nascita della nuova alleanza si organizzò una festa, che da allora si svolge ogni anno per ricordare quell’evento.
La tradizione andò avanti così per diversi secoli, fin quando trecento anni orsono, i colonizzatori spagnoli decisero di abolire la ricorrenza, in quanto considerata pagana. Di fronte all’impossibilità di punire tutti i trasgressori, la strategia utilizzata dalla chiesa spagnola per autorizzare lo svolgersi dei festeggiamenti, fu quella di introdurre la figura del “Santo niño”, del bambino Gesù, simbolo della cultura cattolica, attraverso cui non si sarebbe più celebrata la tradizionale alleanza, ma piuttosto la devozione per la figura di Cristo. Nei trecento anni successivi, la nuova impostazione data dalla Chiesa spagnola, ha di fatto sostituito le origini dell’Ati-atihan, ma non la sua vivacità. Durante la settimana in cui si celebra questa ricorrenza, coloro che prendono parte ai festeggiamenti si alternano tra cerimonie religiose nelle chiese locali e feste in strada, con bande musicali che ininterrottamente affollano le vie della piccola Kalibo, carri in maschera ed eventi musicali minuziosamenteorganizzati.
L’afflusso di turisti in questa settimana, supera di gran lunga il totale dei visitatori del resto dell’anno. Centinaia di bancarelle, ambulanti e negozianti arrivano dall’intera isola per vendere i loro prodotti e le grandi imprese prestano i propri sponsor per finanziare il tutto. Le strade sono un susseguirsi di odori speziati e musiche di ogni tipo.
Una delle caratteristiche più peculiari dell’evento, è costituito dal tingere la propria pelle di nero, così da prendere le sembianze di un vero guerriero Ati, traendone ispirazione per costumi, musiche e danze tribali. Ogni persona che prende parte all’evento decide di rappresentare quei loro primitivi antenati in modo differente, ma mettendo sempre bene in luce il ricordo di coloro che per primi hanno abitato queste terre.
Eppure, in questo clima festoso e carnevalesco, come mai ne avevo visti nei miei molti viaggi, una domanda continua a ronzarmi per la testa. “Che fine hanno fatto gli Ati?”, intendo i veri Ati, gli indigeni che otto secoli primi accolsero quei profughi malesi dando loro accoglienza, coloro ai quali il nome del festival richiama e che viene scritto in ogni angolo delle strade.
La storia ci dice, che quelle popolazioni nomadi che vivevano qua e là disseminate lungo le coste di Panay, furono costrette dagli spagnoli a rifugiarsi sulle montagne, per scampare alle persecuzioni dell’inquisizione, mentre altri, la maggior parte, decise di cercare un futuro migliore sulle altre isole presenti nell’area delle Visayas, come Negros o Cebu.
I più famosi tra tutti sono sicuramente gli Ati di Boracay, il piccolo atollo, mecca per eccellenza del turismo asiatico ed occidentale. Questi gruppi di famiglie, originariamente “proprietari” dell’isola, sono stati scacciati dalle loro case e dalle loro terre, per far spazio a ristoranti e discoteche, negozi e centri SPA, in generale ogni tipo di confort necessario per far vivere al turista un’esperienza soddisfacente alle aspettative.
Altri di loro, sono stanziati da generazioni sulle montagne adiacenti la grande città di Iloilo, adattandosi al nuovo mondo passando da uno stile di vita nomade ad uno più sedentario, vendendo i propri prodotti artigianali nella grande metropoli.
Oltre a questi insediamenti ne esiste un altro, più piccolo e praticamente sconosciuto, che vive nelle periferie di Kalibo. Questa comunità di appena 36 famiglie, iniziò a migrare da diverse aree di Panay sul finire degli anni 80’ e decise di stabilirsi in un terreno che da allora li ospita come affittuari. La loro è una vita difficile, benché le difficolta fanno parte dell’ordinario di molti filippini. Tuttavia questi indigeni sono coloro che possono essere definiti come i “più poveri tra i poveri”.
Il loro adattamento alla vita di città non è mai realmente avvenuto ed a quasi 40 anni dal loro arrivo, la maggior parte dei comunitari non possiede né un terreno proprio né un lavoro stabile. Ciò è dovuto a molti fattori, come l’impossibilità di frequentare la scuola per la mancanza di soldi necessari per iscriversi, comprare penne e quaderni, nonché per il bisogno che i genitori hanno a che i propri figli li aiutino nel vender i loro prodotti per le strade. A ciò si aggiunge la profonda diffidenza che gli abitati del luogo provano verso di loro, unita alla palpabile indifferenza circa il loro destino da parte delle autorità locali.
Ricordo la prima volta che vidi il loro insediamento e subito mi vengono alla mente le prime impressioni e la sensazione di grande tristezza che provai dentro di me, guardando quei bambini così fragili e domandandomi quale potesse essere la loro aspettativa di vita.
Le donne fabbricano prodotti artigianali come borse o porta oggetti, per i quali impiegano anche 8 ore per la loro realizzazione, per poi venderli al prezzo di 120 pesos l’uno (circa due euro). Gli uomini in mancanza di impieghi fissi, vendono altri prodotti come amuleti e piante magiche lungo i marciapiedi sporchi di Kalibo. Giornalmente ogni famiglia guadagna tra gli 1 ed i 2 euro al giorno e con quei soldi deve provvedere a pagare l’affitto e sfamare la propria prole.
Loro, gli Ati, sono davvero gli ultimi tra gli ultimi. Eppure ogni anno migliaia di persone accorrono numerose per celebrare la festa più importante delle Filippine, una festività che porta il loro nome, un evento nel quale i turisti e gli stessi kalibensi, ricordano le loro origini indigene mascherandosi da Ati. Una festa che comporta un grande guadagno per la città di Kalibo, per le multinazionali che sponsorizzano l’evento e per tutti coloro che in quella settimana accorrono in città a vendere i loro prodotti. Tutti ne traggono beneficio, tutti ovviamente eccetto gli Ati.
Camminando per le strade del centro improvvisamente li vedo, davanti la bella Cattedrale in Pastrana Sq. Si sono sistemati per terra lungo il marciapiede per vendere i loro prodotti e sperare in un guadagno migliore rispetto al solito. Intere famiglie ammassate nei pochi metri concessigli dai ben più attrezzati venditori ai loro lati, forniti di banchetti e di stand allestiti con sponsor e “maschere Ati”. Anche oggi sarà dura per loro riuscire a vendere i loro prodotti ed il tempo piovoso non li sta aiutando.
Mi avvicino per osservare e magari comprare qualcosa dal loro banchetto, e dal mio punto di vista, rimango colpito dalla tranquillità dei loro volti, consci del fatto che quella che si sta celebrando è una festa che porta il loro nome, ma che non li gradisce tra i partecipanti. Anche coloro che non lavorano non gioiscono dell’occasione, ma restano ai margini di quelle file interminabili di visitatori con i volti pitturati.Anche la polizia, presente in gran numero per scongiurare il peggio, li riprende più volte, ordinando loro di farsi da parte per permettere di controllare i prodotti in vendita. Tra i carri in festa, sfilate, danze ed un clima di puro divertimento, i veri Ati rimangono silenziosi, nel surreale clima che li circonda. Migliaia di persone che vogliono assomigliargli, ma nessuna di queste che si accorga della loro presenza. Loro, gli Ati, sono gli unici che non si stanno divertendo.
Esiste tuttavia una speranza per queste famiglie. Una speranza che deriva dal lavoro che ogni giorno i ragazzi del Diocesan Social Action Centre (DSAC), supportati da Caritas Italiana, svolgono per migliorare le loro condizioni di vita. Il DSAC lavora a fianco dei più deboli, dei più poveri, di chi come gli Ati è considerato come senza diritti ne possibilità. Già negli anni passati i ragazzi del DSAC,sotto la guida di Padre Ulysses, hanno aiutato in tanti modi la comunità Ati di Kalibo. Così come durante l’Ati-atihan festival di quest’anno, il DSAC si è impegnato a dare ad alcune famiglie Ati uno spazio dove poter vendere i loro prodotti, fornendo loro un tetto per ripararsi dalla pioggia ed il materiale per impacchettare i loro prodotti. Il risultato è stato un successo!
Il 2018 sarà un anno particolarmente importante per la piccola comunità Ati di Kalibo, perché si sta lavorando affinche’ ricevano un terreno tutto loro, provvisto di case vere, corrente elettrica ed acqua potabile.
L’intervento di Caritas Italiana e di DSAC continuerà per i prossimi anni, nei quali si vorrebbe dar loro modo di ricevere corsi riconosciuti e certificati per migliorare le loro abilità e dare loro una differente prospettiva, la possibilità di scegliere per che tipo di futuro lottare.
Una volta che il difficile processo di acquisto del terreno e di trasloco verrà completato, DSAC e Caritas Italianapotranno proporre un progetto di micro credito con le 36 famiglie Ati, concedendo loro il finanziamento necessario per prendere in mano le proprie vite, e chissà forse anche acquistare un vero store, dove al prossimo Ati-atihan festival potranno vendere i loro prodotti, lontano dalla strada e dall’indifferenza dei passanti.
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