Sono Giulia e ho svolto il servizio civile come Casco Bianco a Scutari, nel nord dell’Albania, presso una Casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII. Il mio servizio si divideva tra le attività domestiche ed educative in casa con 6 minori e i due giorni a settimana nel progetto “Incontriamo la Povertà”. Il progetto contribuisce al sostegno sociale e relazionale di 80 famiglie indigenti dei villaggi intorno a Scutari. Da 10 anni grazie a questo progetto vengono forniti mensilmente gli alimentari alle famiglie, un servizio di scuolabus per i bimbi dell’asilo di Bardhaj, i libri scolastici, le visite mediche più costose e interventi strutturali alle abitazioni. Durante il mio servizio ho inoltre collaborato al Progetto di avviamento al lavoro “Colori e stoffe”: aiutavamo alcune donne povere a realizzare con il telaio in legno tessuti e prodotti artigianali in stile albanese. I prodotti vengono poi venduti a gruppi di turismo sociale che ogni estate passano a Scutari.
Al termine di questo anno così intenso è difficile rielaborare emozioni, incontri, occhi, abbracci. Sono piena di ricordi unici, dalle piccole cose quotidiane ai viaggi per tutta l’Albania. Lascio a Scutari mille pezzetti di cuore, ad un popolo che mai avrei immaginato di amare così tanto. Lascio la promessa di tornare a trovarli presto, di custodire un legame. Mi porto quindi un filo che mi lega a quella terra e quella gente che tanto, troppo ha sofferto negli anni. Lascio anche le cose per me negative, la difficoltà di capire alcune cose,la rigida separazione dei ruoli femminile e maschile nella società, perfino con i bar divisi. Lascio la fatica di rinunciare alla mia libertà ed emancipazione come donna italiana per addentrarmi in punta di piedi nell’universo albanese e provare a leggere la cultura locale e rispettarla. Lascio la corruzione diffusa ovunque, la sensazione di sdegno al sentir parlare di esami comprati all’università come unico modo per avanzare negli studi. Lascio la mia incapacità di reagire con leggerezza alle difficoltà, lascio i miei giorni cupi e apatici e me ne libero. Anche se, ora lo so, anche quelli servono. Lascio la mia incapacità di prendermi cura di me, i miei sensi di colpa, il timore del giudizio altrui, la voglia di fare sempre di più ma trovare difficile farlo in quel contesto.
Cosa porto con me? Sicuramente mi porto stretti nel cuore i “miei” bambini della casa famiglia e gli altri accolti, i responsabili, i colleghi Caschi Bianchi, tutti coloro con i quali partendo da tanta diversità siamo riusciti a modellare l’argilla della nostre vite creando famiglia. E’ stata dura, ma ce l’abbiamo fatta ed è bellissimo alla fine vedere i frutti di un Amore che rimane. Porto con me i bambini e le donne delle famiglie povere dei villaggi. Xhuljana che mi saluta con la manina correndo sulla salita di pietre che a Bardhaj porta alla sua casetta, dopo lo spettacolo con i clown che abbiamo organizzato. Klevis e Klevina di 4 e 7 anni che ridono felicissimi per il mio dono delle bolle di sapone che non avevano mai visto. In mezzo ai campi di Grude, villaggio senz’acqua da 7 anni, si rincorrono scoppiando le bolle.
Maruka, dopo averci offerto la sua fantastica uva sotto al pergolato, ha gli occhi lucidi quanto noi nell’ultimo abbraccio, “mi ero così abituata a voi” dice con dolcezza. Lei ha perso il marito sordomuto ma lo ricorda sempre con amore, ha cresciuto da sola due figli educati e dolci, che la aiutano in casa e nell’orto. Mi porto Vjollca e le sue mani ruvide che intrecciano sandali di cuoio per guadagnare due soldi, i suoi bambini bellissimi e vispi, il suo regalo per me l’ultimo giorno: due stupende pantofole da casa fatte da lei con l’uncinetto. Mi porto Lina che ora ha iniziato a vestirsi più curata e a truccarsi. Mi manca già l’abbraccio forte di Antonela che ormai è una signorina di 10 anni, Kristian il furbetto che si arrampica sui ruderi delle case abbandonate e il cucciolo Kevin di 4 anni. Non vuole saperne di mettere gli occhiali e ancora dopo un anno si nasconde in camera al mio arrivo. Quando vado via però è il primo che esce in strada ad agitare la manina urlando “Pafshiiim Giuliaaa” (ciao, arrivederci).
Mi porto l’allegria nonostante le difficoltà di Marta, che arrivo e trovo mentre dà da bere del raki (grappa albanese) ad una delle sue galline. “Eh si, il raki guarisce il mal di zampe” mi spiega con la serietà di un medico. Emmanuel e il suo amichetto salgono con me in macchina fino al negozio di alimentari ma vorrebbero proseguire fino in Italia. Mi porto indelebile la frase di saluto di tutte queste donne forti, scese dalle montagne, che non hanno scelto mai nulla nella vita, né chi sposare né dove vivere (in Albania esistono ancora molti matrimoni combinati e la donna nei villaggi non ha ruolo nella società se non quello di moglie e madre). Sono donne con la D maiuscola come io non ne avevo mai viste, donne con le mani da uomo visti i lavori nei campi e con gli animali. Ci dicevano “te prift Zoti mbare” che significa circa “che Dio ti aspetti sulla via e te la renda favorevole” oppure “te rruajt Zoti” , “che Dio ti custodisca”. Mi porto la rabbia per la condizione di sottomissione di queste donne, rabbia che non voglio dimenticare, vite che voglio continuare a raccontare perché si sappia cosa accade nei villaggi albanesi nel 2017. Mi porto anche l’altra Albania, quella giovane e dinamica, moderna che ho visto a Tirana; un’Albania che ha voglia di diventare europea. Gli odori del mercato dei Rom con i vestiti usati accatastati ovunque, l’odore del byrek appena cotto o del pane appena fatto dai vicini di casa, quello delle strade impolverate, con le mucche e pecore che passano. Mi porto il suono bellissimo del canto del mujaheddin che chiama alla preghiera nelle moschee, unito ai tramonti pazzeschi che vedevo ogni giorno dal quarto piano della nostra casa. Mi porto anche i palazzoni grigi costruiti durante il comunismo, che ogni giorno per un anno ho guardato dalla mia finestra, i mattoni a vista, le crepe eppure i fiori, le tante piante che gli albanesi amano mettere sui balconi.
Mi porto i vecchietti che giocano a Domino tutto il giorno per terra agli incroci e i carretti trainati dai cavalli che mi tagliavano la strada. Le vecchiette ogni mattina dal villaggio venivano in città con un telo steso a terra e i loro quattro pomodori e tre insalate da vendere per sopravvivere. Fin da subito mi hanno colpito molto i volti degli anziani, con tante rughe, segnati da 50 anni di comunismo tremendo, così pieni di sofferenza eppure di vita, magari con i costumi tradizionali. Mi voglio tenere stretta la semplicità di vita, la bellezza delle relazioni, la vita rurale, l’autoproduzione dei cibi dalle verdure al miele, l’ospitalità per lo straniero. Tutte cose che da noi in Italia si sono perse e che dovremmo reimparare da loro. Come anche il rapporto di amicizia tra le fedi religiose. A Scutari il panorama mostra il minareto accanto al campanile cattolico e alle torri ortodosse. I musulmani fanno gli auguri per Pasqua e i cristiani per il Bajram. La convivenza interreligiosa non è utopia, in Albania è realtà. Mi porto la musica albanese dalle influenze turche, i matrimoni di una settimana chiassosissimi che non ci lasciavano dormire, i balli popolari in cerchio, il caffè turco. Chiudo gli occhi e vedo la bellezza mozzafiato delle montagne, del lago di Scutari, del mare di Kepi i Rodonit e Saranda, la particolarità delle casette bianche di Berat e Gjirokastra, tante altre meraviglie del paese delle aquile.
Ho lasciato al di là del mare un pezzetto di vita.
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