La prima volta che andammo a prendere Vitalik era un umido giovedì di dicembre. Qualche giorno prima era nevicato, e la neve si era sciolta in poco tempo lasciando soltanto enormi pozzanghere fangose che coprivano le buche nelle strade. A Elista, nel sud della Russia, le strade sono disastrate: le auto si muovono a zigzag per evitare i crateri che ogni anno, con l’arrivo dell’inverno puntualmente si formano sulla carreggiata.
Parcheggiammo davanti uno dei tanti palazzoni sovietici, il 14°, che riempiono le città russe: grigio, di cemento, con ringhiere arrugginite e i tubi neri dell’acqua calda che dalla centrale termica esterna entrano dentro ogni casa. Le scale sono anch’esse grigie, senza illuminazione interna e senza ascensore.
Alberta, la responsabile del Centro diurno per persone disabili a Elista, mi aveva detto qualche giorno prima: «Da giovedì ci organizziamo con Savor (un ragazzo della parrocchia, ndr) e andate a prendere ogni settimana Vitalik per portarlo al Centro. Vitalik è disabile, e visto che sei l’unico uomo qua dentro, almeno gli fai un po’ di compagnia». Nella Casa Famiglia di Elista infatti ci sono soltanto ragazze. Alcune hanno storie familiari drammatiche, fatte di abbandoni e di vita di strada. Altre sono disabili in carrozzina, con alle spalle anni negli istituti per disabili russi finché non hanno trovato pace ad Elista. L’unico capace di portare la carrozzina di Vitalik giù per le due rampe di scale ero io.
La casa di Vitalik è una delle classiche case russe tutte uguali. La scena che ci troviamo però è diversa da quella delle altre case: Vitalik è sdraiato sul letto, immobile, già vestito. La madre è sdraiata su un letto di ospedale nella stanza accanto. Appena ci vede si alza: è in vestaglia, la mano e il braccio le tremano visibilmente. Alberta mi aveva detto che era malata, ma non mi immaginavo una forma di depressione così avanzata. Ci guarda e chiaramente non si fida. La sorella, l’unica senza disabilità, ci saluta timidamente. Alberta si muove a suo agio, saluta tutti e chiacchiera del più e del meno. Io rimango fermo come un palo.
Alberta è venuta a sapere di Vitalik dal direttore della scuola che lui frequentava. Le aveva detto espressamente: «Se potete fate qualcosa. Ma non per lui, per la sorella». La vita della sorella infatti ruota intorno al fratello e alla madre. 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Mai un secondo libero, mai un momento per sé. Mai un aiuto da nessuno, se non dal Centro Don Oreste di Elista e dai Caschi Bianchi che capitano a fare Servizio Civile.
Portiamo Vitalik giù per le rampe di scale. Savor è abituato, io per niente. Ci fermiamo in continuazione sui pianerottoli per farmi riprendere. Lo facciamo salire sul furgone. La sorella, che ci accompagna, ci ripete in continuazione: «Spasiba, no eto ne udobna». «Grazie, ma non è comodo» per noi del Centro, prenderlo ogni giovedì. Non vuole pesare. Quanti sono i Vitalik, rinchiusi in quelle gabbie di cemento, costretti a rimanere chiusi in casa perché “non è comodo” per qualcuno portarli fuori casa a passeggiare, vedere altre persone o prendere una boccata di aria?
L’appuntamento con Vitalik è ormai settimanale. Ogni giovedì passo a prendere Savor, andiamo a casa di Vitalik, lo prendiamo e lo portiamo al Centro Don Oreste. Savor, che studia come musicista, quando arriva al Centro si siede sempre in un angolo a suonare uno strumento musicale calmucco. In uno di questi giorni Vitalik si gira verso di lui e gli dice: «Mi stanno sanguinando le orecchie». Ne nasce una breve discussione con una operatrice del Centro, Svetlana, che cerca di calmarli e Vitalik che continua a fare polemica con toni molto maleducati.
All’inizio ci sono rimasto anche male, «Ma guarda questo» ho pensato. «È un anno che lo andiamo a prendere e si permette di rispondere pure maleducatamente». Poi mi sono detto: per quale motivo Vitalik non può rispondere male? Perché è disabile? Perché le persone disabili non possono rispondere male? Non possono essere maleducati?
Riconoscere la dignità della persona non significa trattare bene chiunque. Significa avere il coraggio di mandarla a quel paese, se se lo merita. Significa avere la consapevolezza che hai davanti una persona e non la sua disabilità. Tutti i Vitalik chiusi nelle case russe, dispersi nei piccoli villaggi a chilometri di distanza da ogni centro abitato, non hanno nessuno che li consideri come persone. Nessuno con cui poter discutere anche con parole grosse. È un’altra faccia del pregiudizio nei confronti dei disabili, forse meno evidente ma proprio per questo meno difficile da riconoscere. A Elista Vitalik è stato fortunato, perché ha trovato Alberta e un gruppo di ragazze che lo tratta da persona, senza lasciarsi intimorire dalla sua disabilità.
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