È tutta qui la banalità del male.
La mia mente non riesce a pensare ad altro che a quel numero: 8372.
Cammino fra le piccole, bianche lapidi di Srebrenica. Tutto intorno un silenzio profondo ma assordante quanto questo abisso di malvagità: 8372.
Provo ad immaginare la paura che deve aver colto ognuno di loro nel momento dell’attesa, poco prima dell’esecuzione e sento un brivido correre lungo la schiena. Penso al dolore delle loro madri, delle loro mogli e a questa assoluta mancanza di senso. Non è il caldo di questa giornata di fine giugno a togliermi il respiro, non è il sole cocente dell’una di pomeriggio.
Assalamu Alaykum mi sussurra una minuta signora anziana con il velo. La pace sia su di voi.
L’esperienza da casco bianco mi ha condotta fin qui. Con l’autobus ho lasciato l’Albania e sono arrivata in una verdissima vallata della Bosnia Erzegovina circondata da tante montagne ricche di vegetazione rigogliosa; per un attimo tutto mi appare così simile ai luoghi dove sono cresciuta, che ho l’impressione di essere tornata a casa.
Una bellezza che riempie gli occhi, ma svuota il cuore.
8372 sono i destini sepolti a Srebrenica, nel cimitero delle vittime del genocidio o da qualche parte ancora dispersi nelle fosse comuni fra le montagne. Ma le vite spezzate sono molte di più, un numero incalcolabile perché riguardano il dolore di intere famiglie, di un intero popolo, anzi, dell’intera umanità. Un tale dolore non ha confini, non ha etnie, non ha bandiere: coinvolge tutti, ciascuno di noi in quanto essere umano. Nessuno è escluso, nessuno è esonerato.
Oltre la strada, quella che fu la caserma del contingente delle Nazioni Unite. Da ventidue anni si discute se i caschi blu presenti nel territorio dell’ex Jugoslavia – ed in particolare le forze dell’UNPROFOR di stanza a Srebrenica – avrebbero potuto proteggere la popolazione dall’azione genocidaria delle truppe serbo-bosniache.
Di fronte a tutto questo mi chiedo come sia possibile che il negazionismo sia ancora tanto diffuso.
Mi spiegano che nei libri di storia di alcune zone della federazione bosniaca (dove non c’è un ministero centrale dell’istruzione, ma la competenza è demandata ad ogni cantone) il genocidio non è nemmeno menzionato. Mi tornano in mente le parole del generale Divjak, incontrato il giorno prima a Sarajevo: «una volta un uomo con i baffi disse che la religione è l’oppio dei popoli. Secondo me invece l’educazione è l’oppio dei popoli.» Una simile barbarie non può essere ridotta a mera opinione.
Eppure la fila dei negazionisti è lunga quanto la penisola balcanica: parte proprio dal piccolo municipio di Srebrenica e si estende fino in Russia, passando da Banja Luka e Belgrado.
Anche quest’anno verrà data degna sepoltura ad altre vittime, 71. I loro resti sono stati trovati in circa trenta fosse comuni diverse. Ogni anno che passa la ricerca si fa sempre più ardua, ma non per questo meno obbligata. Di quelle 8372 vittime, più di mille non sono ancora state ritrovate. Penso alle famiglie a cui è stato tolto tutto in quella maledetta estate di ventidue anni fa, persino il diritto di avere un luogo della memoria, dove piangere sopra il corpo del proprio caro e portare una margherita appena sbocciata a primavera.
Srebrenica è un paese ammutolito, un fantasma che si guarda allo specchio. Molta gente vuole andarsene. Non ci sono possibilità lavorative e la speranza scivola via come l’acqua termale – antica ricchezza del luogo – con ogni abitante che abbandona quest’angolo di mondo per ricostruirsi altrove. Tutto sembra riportare al piano di un fato che ha deciso di negare a Srebrenica anche solo la possibilità di sperare.
Ma come tanti piccoli fiori nel deserto, una parte degli abitanti di Srebrenica – bosgnacchi o serbi che siano – lottano contro un destino già scritto. Sono i ragazzi di Adopt Srebrenica, un gruppo multietnico di giovani che ha scelto di abbattere il muro della divisione etnica per coltivare insieme la memoria di quanto avvenuto ventidue anni fa. Oppure è il gruppo culturale – anch’esso multietnico – delle donne che portano avanti il progetto comune di restituire valore al ruolo sociale, economico e politico della donna.
La scelta di percorrere insieme la via della riconciliazione da parte di questi piccoli eroi quotidiani insegna a ciascuno di noi che ricordare e sperare è un obbligo morale nei confronti di Srebrenica e di tutte le Srebrenica nel mondo.
Wa alaykuma assalam, rispondo. E la pace sia su di voi. Sempre.
Srebrenica, 22 luglio 1995
Il massacro di Srebrenica avvenne nel luglio del 1995 nell’ambito della guerra in Bosnia Erzegovina ed è il più grave massacro avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic massacrarono più di ottomila uomini e ragazzi bosgnacchi di religione musulmana nel corso dell’azione di conquista della piccola città nell’est della Bosnia Erzegovina. L’area era stata dichiarata zona di sicurezza dalle Nazioni Unite ed era quindi sotto la protezione dei caschi blu dell’UNPROFOR.
Secondo la giustizia internazionale fu un vero e proprio atto di genocidio. Le 6.662 vittime finora identificate sono state trovate in 81 fosse comuni di cui solo 8 sono cosiddette “primarie”. Le altre sono fosse “secondarie”, dove cioè le vittime sono state trasferite nel tentativo di occultare le prove del massacro. Si cercano i resti delle 1.100 vittime per ora considerate disperse.
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