Vorrei prendere spunto da alcuni versi di una poesia di Damiano Sinfonico, Aforismi e dintorni, che mi sembrano ben descrivere la Zadrima, regione a Nord dell’Albania, e la sua gente.
Quando piove le giornate si trasformano in una vasca di acqua stagnante.
Piove spesso qui a Baqel e le strade, ancora non asfaltate, si allagano, i canali straripano e tutto sembra fermarsi, soprattutto la corrente elettrica che puntualmente va via, anche per ore. Così, di sera, le uniche fonti di luce e calore sono le candele e la stufa a legna (dimentichiamoci computer, cellulari, wi-fi, etc). All’inizio sembra davvero di essere immobili in uno stagno: “che si fa?/ma quando torna?/si può chiamare qualcuno?”. Come nell’impasse si aspetta “la luce”. Poi con il tempo ci si abitua perché la corrente va via più o meno ogni giorno, e si inizia ad apprezzare questo stato di assenza che in realtà ti fa riscoprire le chiacchiere o magari un buon libro, il çaji i malit (tè delle montagne) o semplicemente il rumore assordante della pioggia sul tetto – ricavato da container usati per accogliere i kosovari nel 1999 – semplici cose da cui veniamo distratti quotidianamente per colpa della corrente elettrica, tanto da sentirne la mancanza e chiedersi durante il maltempo “Come mai non è ancora andata via la luce!?”.
Ciò che manca nel deserto sono gli orologiai.
E gli orologi in Albania. Difficile fissare un’ora, una data, un appuntamento: tutto può succedere nel frattempo e i progetti cambiano in continuazione, così come le idee. Lavorare nei villaggi della Zadrima mi sta insegnando ad essere sempre pronta, perché qui son tutti sempre pronti anche quando non si sa bene per cosa!
I paesaggi non danno tregua.
Il cielo di notte qui in Albania è infinito e fitto di stelle: poche case nel villaggio sono illuminate e così il buio è pesto. Il vero buio credo di averlo visto qui. Le montagne sono dappertutto: ovunque guardi ci sono montagne intorno. E poi colline, brulle. E immondizia, ovunque. Qui nel villaggio, nonostante la gente paghi la tassa sui rifiuti, non ci sono cassonetti e non c’è raccolta quindi le famiglie sono solite bruciare i rifiuti nei propri giardini o gettarle nei canali o a ridosso delle strade appunto, ed è contrastante vedere strade così sporche sapendo che invece gli albanesi ci tengono tanto alla pulizia degli interni delle proprie case e delle proprie auto. Non esiste infatti un minimo di educazione ambientale, ma soprattutto senso del bene comune annullato durante i quarant’anni di dittatura comunista. La proprietà era dello stato e la popolazione era costretta ad occuparsene tramite una sorta di “volontariato forzato”, per cui oggi la considerazione di “ciò che non è mio” non è neanche “nostro” ma ancora dello Stato che in Albania è un’entità eterea, indefinita e spesso inesistente più che una realtà, soprattutto dopo la caduta del regime.
Gli occhi sono quieti come il letto di un fiume.
I visi solcati della gente del villaggio nascondono degli occhi quieti e al tempo stesso vispi e acuti, sempre sorridenti tanto che se anche non si parla la stessa lingua, in qualche modo ci si sta capendo. E le mani ruvide, ruvide, ruvide, che ti accarezzano e ti augurano il meglio. La gente qui è instancabile, soprattutto le donne: lavorano di continuo in casa, nell’orto, nella stalla e alle quattro del mattino son già in piedi per iniziare la loro giornata. Infatti qui ci si saluta così: Au lodhe?/ Pak, potì? ( “Sei stanco?/ Un po’ e tu?”). Un’altra cosa che contraddistingue gli albanesi è sicuramente l’ospitalità, considerata sacra: Buk e Kryp e Zemer (pane, sale e cuore) è quello che offrono a chiunque si presenti alla loro porta oltre alla stanza migliore, il cibo migliore e tutto ciò che possono donare, anche se son poveri. Particolarità che permise negli anni Quaranta di salvare migliaia di ebrei rifugiatisi in Albania scappando dalla Germania nazista: nel 1943 la popolazione albanese si rifiutò di consegnare ai nazisti le liste degli ebrei che risiedevano in Albania, non facendo distinzione tra gli ebrei albanesi (appena duecento negli anni Trenta) e i profughi ebrei (circa un migliaio), diventando così l’unico paese che alla fine della guerra contava più ebrei che al suo inizio. La Mikpritia e la Besa, ovvero l’ospitalità e la promessa data, segnano questo successo morale tutto albanese in tempi in cui tutti gli altri paesi europei fallirono.
Una casa è un luogo dove abbiamo le ciabatte.
Gli albanesi son soliti cambiarsi le scarpe ogni volta che entrano in casa. Scarpe che devono essere sempre super pulite: si puliscono infatti prima di uscire di casa ed è sorprendente vedere scarpe magari vecchie, ma lucidissime! Un must, invece, sono le ciabatte estive con le calze invernali, anche fuori casa (soprattutto fuori casa). Anche le case, come le scarpe, sono pulitissime, dei piccoli gioielli sempre in cantiere e che sembrano voler raggiungere il cielo.
Le sensazioni più minute (la tazzina che tocca le labbra, il tappo che si stacca dalla penna, il fruscio del giornale) allietano la giornata.
Vivo la Zadrima e la mia esperienza qui godendo soprattutto delle piccole cose: dei bambini che giocano in strada, dei tempi lenti, della gentilezza profusa da ogni abitante del villaggio, dei sorrisi e delle scomodità, perché ci sono e per fortuna, sennò tutto sarebbe completamente diverso.
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