“Ma prof, cosa sono i Caschi Bianchi?” Mi chiede Aischa sbattendo le sue ciglia lunghe dall’alto dell’hijab azzurro a pois bianchi. Ho prestato servizio per quasi un anno al Doposcuola della Caritas di Foligno, prima di partire per la Grecia, ma non c’è proprio strada per non farmi chiamare”prof” dai miei bambini. Vorrei rispondere qualcosa di intelligente, che illustri ad Aischa il Servizio Civile e la mia scelta con Caritas Atene, ma tutto quello che mi viene in mente è solo la foto di un’amica fotografa, che mi ha regalato qualche giorno prima della partenza. “È la foto più bella che ho fatto” mi aveva detto consegnandomi quel tesoro in bianco e nero incastonato in un quadretto su stoffa fiorata. La foto è stata scattata in Perù; c’è una bambina dal caschetto ebano al centro, che gioca felice con la palla. Le sembro io quella bambina, mi dice. Io, però, non ci vedo affatto un pallone in quella foto. Io ci vedo un mondo, con tutti i paesi, e delle braccia tese per poterlo abbracciare.
Quando ti trovi davanti al dolore non sai mai se il tuo abbraccio è gradito oppure no. Non sai cosa rispondere ai migliaia di cuori feriti che bloccati dall’altalena del confine sono finiti in una terra di nessuno. Non sai se le tue parole possono ferire. Non sai come trovare la strada per essere quella bambina peruviana che sorride. Si dice che la cosa più difficile per un grande verso un bambino sia dire di no, perché poi deve spiegare perché.
I grandi del mondo non hanno spiegato perché ai profughi di Idomeni e ora, oltre al progetto iniziale per cui sono partita, è in mezzo a loro che mi ritrovo. E il perché devo spiegarglielo io. Ricordo un ragazzo in particolare. Lo avevo visto da solo nel campo di transito allestito per profughi, assorto nel silenzio, e avevo iniziato ad intervistarlo per il mio lavoro di monitoraggio. Da quando era partito per “il Viaggio” non aveva parlato mai con nessuno. “Non mi fido” – mi aveva detto. Ero la prima persona ad entrare nella sua solitudine. Pensava che il mondo non potesse capirlo. Anche per questo se ne era andato dal suo paese, il Libano, dopo essere sopravvissuto ad un’esplosione. Non ricordo di aver detto molto, so solo che dopo averlo ascoltato – credo per un’ora – aveva uno sguardo diverso. Mi ha scritto circa un mese dopo, dicendo che nell’inferno di Idomeni aveva capito che doveva tornarsene indietro e che il suo posto era a Beirut. A lottare e a portare qualcosa di bello per la sua gente. Credo di aver visto a Idomeni quanto può curare il nostro ascolto. Solo il nostro ascolto. Da quell’ascolto – mi aveva detto – aveva ricominciato a credere nelle persone. Io mi sono sentita felice. Perché quando una persona torna a sperare abbiamo fatto davvero tutto quello che potevamo fare.
Qualcuno mi ha chiesto come mi hanno cambiata i profughi in questi mesi di servizio, ma certo, non credo sia giusto dire che solo i profughi mi hanno cambiata. Credo che i poveri mi cambino, tanto a Foligno, la mia città di origine, quanto in Grecia. E devono cambiarmi ogni giorno perché ogni giorno devo reimpararlo da capo. Credo anche che il mio migliore amico qui in Grecia sia diventato un senzatetto che ho conosciuto nella copertina di un giornale. Si era costruito un albero di Natale nella sua dimora all’aria aperta e avevo deciso di andarlo a cercare. In quei giorni mi ero persa la mia carta di credito e avevo i soldi contati, non avevo nulla da portargli. Appena l’ho trovato il mio senzatetto, che era proprio lì dove lo aveva ritratto il giornale, mi ha fatto sedere. Mi ha allestito un piccolo salotto, lì, sotto il colonnato, con i cuscini che aveva. E come se lo avesse saputo, mi ha dato da mangiare. Ogni volta che lo incontro sa leggermi dentro. L’ultima volta che l’ho incontrato mi ha detto “Non so perché, ma devo darti questo“. Si è tolto una piccola croce che portava al collo. Con una delicatezza estrema ha iniziato a pulirla per potermela regalare. Ha preso un coltellino e ci ha intagliato i segni che i primi cristiani usavano per indicare Gesù. Non so cosa volesse dirmi ma conservo quella piccola croce come un tesoro geloso. Forse perché so che la solitudine in cui la Grecia mi ha chiesto di entrare mi sta permettendo di entrare in tante solitudini. Perché è stata la Grecia a chiedermi di venire qui. E forse vuole che io ci sia e basta.
È oramai qualche mese che sono ad Atene e ho sentito infine il bisogno di fare un taglio drastico ai capelli. Me ne accorgo solo ora con fare divertito, ma ora sì che con questo taglio somiglio davvero alla bambina peruviana che gioca con il mondo. In casa abbiamo allestito un laboratorio per colorare gli aquiloni, assieme ai bambini del Centro Caritas in cui abitiamo, per farli volare nel giorno del Kathara Deutera, il giorno in cui i greci inaugurano la Sarakostì, l’inizio della Quaresima. Mi diverto anch’io ad insidiare gli aquiloni, a colpi di brillantini e pennarelli, perdendo i miei disegni tra gli schizzi dei più piccoli. Forse l’ho fatto senza volerlo ma nel mio, di disegno, c’è una bambina che abbraccia il mondo. “Ma no, non dovevi farlo così! – mi corregge uno dei bambini – La bambina, nel disegno, deve abbracciarlo più forte il mondo, deve appoggiarci la guancia!” Rimango di stucco. “Hai ragione Matteo, hai ragione – gli dico pensando alla mia foto – Il mondo devo tenerlo il più vicino possibile.”
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