E’ una parte del nostro servizio nella baraccopoli di Batumi, che ci porta tre volte alla settimana a incontrare i bambini e le famiglie direttamente a casa loro, nelle loro baracche, dove ognuno di noi volontari insegna inglese a un gruppetto di bambini, i figli della famiglia che ci ospita insieme a qualche altro amico e vicino di casa.
Pezzetti di storie che abbiamo iniziato a scrivere insieme a loro, ma che hanno ancora tanto da raccontare. Pezzetti di servizio che mi hanno fatto sorridere, arrabbiare, meravigliare, che mi hanno fatto donare e ricevere, che mi hanno fatto divertire da matti! E che mi hanno fatto camminare…
1 febbraio 2016 – Pensavo di insegnare inglese, non di essere invitato a cena!
E’ la prima volta che entro nella loro baracca, dove sono atteso per insegnare inglese ai due figli e a un altro bambino vicino. Busso; mi aspettano. Mi aprono col sorriso e mi accolgono a braccia aperte. Mi tolgo le scarpe bagnate di neve e sporche di fango, anche se mi implorano di non farlo. Mi fanno accomodare vicino alla stufetta a legna. Fra bambini, genitori, amici e parenti siamo già in dieci in sei metri quadrati. Il calore umano è più forte di quello della stufa. Non c’è la corrente e la debole luce del sole delle cinque e mezza del pomeriggio filtra dai pertugi delle pareti. Sul tavolo accendono una candela.
Mi preparo per fare inglese, ma forse non è nelle intenzioni della famiglia, non ora. Sul tavolo compaiono piatti, bicchieri, caffè e specialità georgiane, la loro “polenta” col formaggio fuso, carne e dolce, tutto insieme. E’ un attimo; non avrei nemmeno fatto in tempo a rifiutare. Non che fosse nelle mie intenzioni, s’intende!
E allora si mangia, si scherza, si ride. E’ la prima volta che entro nella loro casa; conosco già i bambini, con cui giochiamo spesso in baraccopoli, ma non la loro famiglia. Cominciamo ora a conoscerci. Il livello del mio georgiano è ridicolo, considerato che son qua già da diversi mesi, ma forse è meglio così. E’ più divertente. Così si interpreta, si gioca, si mima. Mi prendono in giro e mi fanno complimenti e in fondo è la stessa cosa!
La lezione di inglese doveva finire alle sei: alle sei meno dieci abbiamo appena finito di mangiare! Per fortuna per oggi è l’ultima baracca in programma e posso rientrare alla base più tardi. Bene, perché la festa continua, con i bambini, ora. Scriviamo, cantiamo, ridiamo e impariamo qualcosa. E’ il nostro inglese insieme.
E’ ora di andare, anche se rimarrei volentieri ancora. Saluto e ringrazio e loro mi dicono no, grazie a te. Di cosa? Sono venuto, ho mangiato e mi sono divertito, sono solo io che devo dire grazie, almeno oggi. Ma non ho voglia di litigare! Tanto ci vediamo già dopodomani. A fare inglese…?
15 febbraio 2016 – Dimmi dove devi andare, fratello: ti ci porto io!
Oggi pomeriggio sono ancora là, come ogni lunedì, mercoledì e venerdì da un paio di settimane a questa parte. A insegnare inglese ai bambini della baraccopoli, ospite delle loro famiglie, nelle loro case di legno, lamiera e se va bene un po’ di muratura. Inglese e magari insieme qualcos’altro. Perlomeno ci proviamo.
Finisco e sto per uscire dalla baraccopoli, pensando che stavolta potrei tornare a casa a piedi, perché non mi sono portato dietro neanche mezza moneta per la marshrutka – il taxi collettivo. E invece passa la macchina mezza scassata della prima famiglia dove faccio inglese, dove cinque ragazzini mi han fatto morire anche solo per imparare numeri e colori. Mi chiamano e la macchina si ferma. Ci sbracciamo per salutarci. Siamo così felici di vederci che sembrano passati due mesi anziché due ore. Il papà mi chiede dove sto andando e poi mi dice di montare su, e non c’è molta possibilità di scelta. Gli chiedo dove stanno andando loro, perché non voglio che facciano strada solo per me. Lui mi risponde: “Da nessuna parte. Dimmi dove devi andare te. Sei mio fratello!”
Così si parte. C’è il papà con una dei suoi quattro figli, più altri due bambini della baraccopoli che son già montati su. Musica a palla e due parole in croce di georgiano bastano per qualche risata e per arrivare fino a casa.
Siete forti! E siete anche un po’ fuori! Forse è per questo che ci troviamo…
Grazie per oggi. Ci vediamo dopodomani.
17 febbraio 2016 – Lasciatemi insegnare… con la chitarra in mano!
Oggi in baraccopoli vado con la chitarra per la prima volta. Vediamo se riesce a tornare indietro intera… e soprattutto se posso usarla per insegnare inglese ai miei tranquilli scolaretti che seguo nelle loro baracche!
Gliel’avevo già promesso da un po’ e non si erano dimenticati. Però iniziamo con un piccolo test scritto, più o meno serio, in cui è divertente constatare che sanno ancora poco niente e soprattutto che a scrivere le parole in inglese con un alfabeto che non è il loro e che non si legge come si scrive non ce la possono proprio fare. Però si vede anche che qualcosa, forse per sbaglio, è entrata, e che se non altro hanno la voglia di riempire gli spazi bianchi del test che ho preparato per loro. Anche copiando dal quaderno e dai compagni con me a due centimetri di distanza, ovviamente! Ma fa parte del gioco anche questo.
Poi ascoltiamo “If you are happy”, la suoniamo e la cantiamo insieme, battendo le mani, i piedi e facendo le facce. E insieme si imparano quei pochi vocaboli di inglese pensati per oggi.
Un po’ in ritardo finisco anche questo pomeriggio, ma forse non è ancora tempo di andare. Esco dall’ultima baracca e trovo Beatrice e Giulia, le altre due volontarie che hanno appena finito con l’inglese in due baracche vicine. Sono fuori con bambini e genitori che, appena mi vedono con la chitarra, mi chiedono di suonare qualcosa con loro. I miei scolaretti mi hanno seguito; so che avrò il loro supporto. Una donna prende da casa uno sgabello e me lo porge. Così facciamo sentire anche agli altri la canzoncina in inglese che abbiamo imparato. Oggi è caldo, anche se è febbraio, sono in maniche corte e c’è il sole. E’ bello cantare insieme fra le case della baraccopoli, ai margini del prato di erba ed escrementi di vacca dove tante volte abbiamo giocato con i bambini. Facciamo una canzone, poi un’altra; in inglese, ma anche un po’ in italiano, mentre in georgiano è un tentativo vano!
Stiamo per andare, e una signora ci chiede di cantare “L’italiano” di Toto Cutugno, una delle canzoni italiane più famose qua in Georgia, insieme a quelle di Celentano e Pavarotti. Mi sa che la sanno meglio loro che noi, ma ci dobbiamo attrezzare per una prossima volta. Alla fine siamo noi gli italiani veri, qui, o no?
22 febbraio 2016 – L’inglese in baraccopoli si suda, si canta, si gioca.
Insegnare inglese ai bambini della baraccopoli nelle loro baracche può essere difficile e stancante – come nella prima famiglia che mi ospita ogni lunedì, mercoledì e venerdì – perché i bambini e ragazzetti ce la mettono tutta… per esasperarmi! Non per questo è meno entusiasmante, anzi, e continuerò a tornare da loro, ancora più convinto.
Poi ci sono le baracche come quella dove vado per ultima, con i bambini che mi aspettano sempre fuori sulla strada e non vedono l’ora di iniziare. A studiare inglese, voglio dire! Quando io, invece, a scuola non vedevo l’ora di finirlo, l’inglese. Qui ogni appuntamento ormai è una garanzia, perché non facciamo che divertirci dall’inizio alla fine. E fra una risata e l’altra impariamo inglese senza che ce ne accorgiamo.
Evidentemente si vede anche da fuori che studiare inglese dev’essere proprio divertente, perché pian piano le ultime volte si è avvicinata al nostro tavolino anche la figlia maggiore della famiglia che ci ospita, che frequenta l’ottava classe e non farebbe parte del nostro gruppetto. Fino a che ieri lei e i genitori sono rimasti a fianco a noi per tutta l’ora, non solo ad ascoltare ma anche a partecipare, a cantare e giocare insieme a noi. E son sicuro che qualche nuova parola l’hanno imparata pure loro. Fra una risata e l’altra.
24 febbraio 2016 – Non siamo mica normali!
Era già diverse volte che quando andavo a fare inglese nella loro baracca la famiglia M. me lo chiedeva: “Dai, quando finisci inglese oggi pomeriggio vieni con noi in Boulevard!” Con una scusa o l’altra, più o meno valida, avevo risposto che non potevamo quel giorno e quell’altro. Ma ieri si poteva, e avevamo deciso che se me l’avessero chiesto ancora saremmo andati. Arrivo alle tre, un po’ in ritardo come al solito, per fare inglese. Presto mi propongono di nuovo di uscire insieme, ma ora non c’è il papà, che aveva lanciato l’idea. Ci diamo comunque appuntamento tre ore dopo, quando avrò finito inglese nelle “mie” tre baracche.
Arriva l’ora e mi incammino con Nicoletta, l’altra volontaria che si unisce a noi. E per strada incrociamo proprio papà M. con la sua macchina mezza scassata. Si ferma e fra una battuta e l’altra ci conferma che lui c’è; lo aspettiamo a casa sua. A casa ci sono la mamma, i quattro figli e un cugino, che vive con loro e fa inglese con noi. E’ ancora presto per partire: c’è da aspettare una mezz’oretta che torni il papà. Ma non facciamo in tempo a chiederci cosa fare nel frattempo.
Siamo fuori davanti alla loro baracca. E’ una bella giornata. Anche i vicini sono fuori e ci fanno un paio di domande su chi siamo, cosa facciamo lì, anche se già più o meno sanno che ci sono italiani che girano in baraccopoli, dove la Comunità Papa Giovanni XXIII è presente da anni. Non riesco a spiegare molto e non so quanto abbiano capito. Ma per loro siamo già loro ospiti: la proverbiale ospitalità georgiana è molto più concreta di un proverbio. Ci invitano nella loro baracca a bere del vino, ma dentro dopo due minuti la tavola si è già apparecchiata con pesce, pollo, formaggio, verdura…
Che è ora di partire ce lo ricorda il secondo dei quattro figli M., che si affaccia dalla porta della casa dove siamo ospiti. Ancora cinque minuti e li ringraziamo e salutiamo di cuore. Nella baracca di fronte la macchina è pronta. Ero proprio curioso di vedere come saremmo andati tutti insieme in Boulevard, visto che già solo gli M. sono sei. Ma forse non sarebbero venuti tutti. Ah, mi sbagliavo: non sarebbero venuti soli! Siamo in dieci in macchina: loro sei, noi due, il cugino che conosco già e suo fratello! Il papà smanetta qualcosa sotto il cofano e poi in qualche modo partiamo. La macchina non sembra contenta quanto lo siamo noi, ma fa la sua buona musica e ci porta a destinazione. Al famoso Boulevard di Batumi, la facciata più bella e turistica della città, la passeggiata sul lungomare di cui i georgiani vanno orgogliosi e dove bambini e adulti adorano andare a fare due passi, a correre, a giocare. Che poi sia solo appunto la facciata scintillante della città è un altro discorso.
La famiglia M. fuori dal contesto della baraccopoli dove l’ho sempre vista, non delude. Sono proprio fuori! Hanno una gran voglia di giocare, di ridere, di divertirsi insieme. A partire dal papà. E allora corriamo, cantiamo, facciamo un cerchio in mezzo al viale e balliamo un paio di bans, giocoliamo per via e facciamo un sacco di foto e video. No, non siamo mica normali fra la gente che passeggia tranquilla, che si gode la bella serata in riva al mare, che corre o che chiacchiera! Ma ho imparato che essere normali non è una cosa di cui andare orgogliosi, e son contento di essere con loro. Di non essere normale, di farci riconoscere. Riconoscere come, poi? Come italiani? Come georgiani? Come gente che vive in una baraccopoli?
O forse come una famiglia un po’ particolare che passa una serata insieme in semplicità, senza bisogno di tante parole e tante cose, e al di là di tutte le differenze che sulla carta ci dividono?
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