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Caschi Bianchi Cile

Ho ancora sangue mapuche – La nostra esperienza nella Comunità Josè Manuel Tropàn

“La nostra esperienza nel profondo sud del Cile, nelle terre ancestrali della nazione Mapuche” – Seconda parte 

Scritto da Michele Casalboni, Marja Crevani e Simone Curtino, Caschi Bianchi Apg23 a Santiago del Cile

La famiglia mapuche che ci ha ospitato per tre intensi giorni non pratica rituali strani, non parla lingue incomprensibili, non si veste con piume e stoffe sgargianti. Questa é la visione errata e stereotipata che si suole avere dei popoli originari: gretti individui dalla pelle scura e i modi stravaganti. Il passato originario e mitico dei mapuche, con i suoi costumi e le sue usanze, è qualcosa che difficilmente si può trovare nella società cilena attuale. Le ricostruzioni di queste identità perdute, sono spesso tentativi artificiosi e indotti dalle stesse politiche governative centrali, che da un lato espropriano ai mapuche terra e risorse, dall’altra vogliono relegarli ad un ruolo da museo, vestendoli con piume colorate senza che un solo passo venga compiuto verso maggiori eguaglianza e diritti. Questo ci hanno insegnato Victor e Anita in questa breve esperienza in casa loro. Ci raccontano che qualche anno fa, l’amministrazione regionale ha stanziato fondi per il recupero della cultura mapuche. Fondi destinati all’acquisto di cappelli, mantelle e altri costumi tradizionali, elementi senza dubbio originali ma poco utili al duro lavoro dei campi dei contadini mapuche.

Victor e Anita sono infatti due orgogliosi contadini, votati alla vita del campo, dediti all’agricoltura e allevamento, più interessati a raccolto e bestiame che a vecchie tradizioni ancestrali cadute oramai in disuso. Anita parla mapudungun, la lingua mapuche, perché é cresciuta con i nonni. Victor invece a 11 anni é scappato dalla miseria della campagna sureña per cercare fortuna con i winka, i cileni. Per questa ragione non ha mai imparato l’idioma dei suoi antenati.

Vivono nella comunità mapuche che prende il nome del nonno paterno di Anita: Josè Manuel Tropán. Con fatica nascondono rancore e risentimento mentre indicano la regione che circonda il loro podere: “…una volta i terreni della mia famiglia erano molto piú vasti, sono stati i cileni a ingannare mio nonno, facendogli firmare un contratto in bianco che lui considerava un patto tra gentiluomini per l’affitto di una parte delle terre, e invece è risultato essere un vero e proprio accordo di vendita”. Le terre il neo-liberalismo te le porta via così. L’esproprio non avvenne solo durante la conquista spagnola del sud del Cile attraverso la forza delle armi e della guerra. Dopo l’indipendenza del Cile dalla Corona spagnola, la conquista continua sotto altre forme. I terreni vengono espropriati dal governo cileno che poi li rivende o li appalta a imprese private. Oppure attraverso truffe, sfruttando l’ignoranza e l’analfabetismo dei caciques, i capi delle tribù mapuche. E ancora ai giorni nostri: attraverso acquisti legittimi ma anche astuti ricatti ai danni di poveri contadini.

La comunitá Tropán che ci ospita non ha intrapreso la strada della resistenza attiva contro il governo cileno, come le comunitá in conflitto situate piú a nord. Nè si presenta come tradizionalista e attaccata ai costumi del passato. Victor e Anita ci raccontano che anche tra gli stessi membri della comunitá non ci sono grandi relazioni, sebbene le 30 famiglie siano in qualche modo imparentate. Oggi vive così la maggior parte dei mapuche, raccolti in comunitá, sorta di consorzi o cooperative agricole, gestite a livello burocratico da un amministratore.

Al nostro arrivo Anita ci accoglie con un mate, che ci rilassa e ci scalda dopo il lungo viaggio della notte. La casa è angusta ma dignitosa, una stufa al centro scalda la stanza, cucina il pranzo e asciuga i vestiti bagnati dalle frequenti piogge. Nonostante il mate, i primi momenti non sono così distesi, Anita parla poco e con difficoltà si relaziona con noi. Non è da tutti i giorni ospitare winka italiani nella propria casa.

Victor, il chau (padre) rientra di lì a poco. Dopo una mattinata trascorsa a vendere i suoi prodotti al mercato rurale e a comprare il materiale con cui lo aiuteremo a costruire un nuovo pollaio. Il giorno seguente ci mettiamo al lavoro. Le giornate scorrono via velocissime, ritmate dal lavoro nel campo e da ricchi e genuini pasti.  Dopo ognuno di questi, Anita serve giri di mate. La bevandaviene sempre servita dalla stessa persona che fa girare il matero tra i presenti. Si beve quindi tutti dalla stessa bombilla (cannuccia): per ogni persona Anita aggiunge un po’ di acqua bollente e un pizzico di polvere di stevia, la pianta dal potere dolcificante tanto conosciuta in sudamerica. Il rituale prevede che si ringrazi solamente quando si è sazi.

La domenica i lavori del pollaio sono terminati. Victor decide di festeggiare sacrificando un agnello, come si fa da queste parti. Dopo il ricco pranzo, che continua per ore tra risate, racconti, aneddoti, è giunta l’ora di partire. Prima di andarcene abbracciamo Victor e Anita e tutta la loro splendida famiglia. Scattiamo una foto ricordo e ci incamminiamo sulla lunga mulattiera che da casa loro scende fino alla fermata dell’autobus.

Arauco ha un dolore
più nero dei suoi costumi,
non sono più gli spagnoli
quelli che lo fanno piangere,
oggi sono gli stessi Cileni
a togliergli il pane.
Rialzati, Pailahuán.

Arauco tiene una pena
más negra que su chamal,
ya no son los españoles
los que les hacen llorar,
hoy son los propios chilenos
los que les quitan su pan.
Levántate, Pailahuán.


Parte 2 di 3 – Continua

Leggi la prima parte Ho ancora sangue mapuche – Conflitti secolari: la storia della regione Villarrica

Leggi la terza parte Ho ancora sangue mapuche – Uno sguardo d’insieme

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