Caschi Bianchi Cile

WEICHÁN – Storie del conflitto mapuche nel sud del Cile

Questo reportage fotografico ci racconta la lotta Mapuche nel sud del Cile, un popolo che non vede i suoi diritti riconosciuti e cerca di guadagnarsi ogni giorno il rispetto della sua semplice esistenza

Scritto da Giuseppe Santaguida, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 a Valdivia

Il Cile è un Paese di 18 milioni di abitanti. Al suo interno vivono 10 minoranze etniche ufficialmente riconosciute dalla Ley Indigena 19.253, ma non dalla Costituzione. Secondo un censimento del 2017, esse rappresentano circa il 12,8% della popolazione. Tra queste, la più numerosa è quella dei Mapuche. Il Wallmapu è il territorio ancestrale di questo popolo, che in passato comprendeva i territori della parte centrale del Cono Sur, attraverso gli attuali stati di Cile e Argentina: dal fiume Limarí, fino all’arcipelago di Chiloé, dalla Provincia di Buenos Aires fino alla Patagonia. Tuttora, in Cile questo territorio corrisponde alla cosiddetta “Macrozona Sur”, che comprende le regioni del Biobío, Araucania, Los Riós e Los Lagos. Questa macroregione è tradizionalmente segnata dal “conflitto mapuche”, un conflitto di lunga data che vede le comunità indigene contrapporsi quotidianamente agli interessi di molte aziende private e allo Stato cileno. Nella loro millenaria storia, i Mapuche hanno dovuto resistere a diversi tentativi di invasione. I primi furono gli Inca, che non riuscirono mai ad espandere il loro impero a sud del fiume Biobío. In seguito, gli Spagnoli cercarono di invadere i territori a sud in cerca di metalli preziosi. Anche in questo caso, i Mapuche opposero una fiera resistenza, tra le più eroiche mai attuate nelle Americhe, costringendo gli invasori europei a rivedere le loro pretese. Raggiunta la sua indipendenza, la Repubblica del Cile decise di mettere fine una volta per tutte alle aspirazioni di libertà di questo popolo, attraverso una campagna militare che verrà definita “Pacificazione dell’Araucania”. L’intervento pose fine all’indipendenza del popolo mapuche e ridusse il loro territorio a poche centinaia di ettari, confinando i superstiti nelle riserve. Da allora il popolo mapuche è costretto a lottare per veder riconosciuti i propri diritti culturali, territoriali ed economici.

Nel corso del tempo, molte terre mapuche sono state vendute ad aziende attive soprattutto nel campo della silvicoltura. Queste aziende hanno disboscato le foreste native e sostituito le piante autoctone con piante di pino ed eucalipto, alberi non originari del Cile e che necessitano di molta acqua, causando frequenti periodi di siccità che impediscono agli abitanti di irrigare i campi e dissetare gli animali. Inoltre, i Mapuche sono un popolo la cui spiritualità è fortemente legata al rispetto della Madre Terra (“mapuche” significa letteralmente “popolo della Terra”). Credono che all’interno dei boschi e lungo le rive dei fiumi abitino forze ancestrali che vengono scacciate dallo sfruttamento continuo delle risorse naturali.

Al giorno d’oggi, i territori del Wallmapu sono profondamente segnati da questo conflitto. Si registrano continui episodi di violenza legata alle dispute territoriali e alle tensioni tra comunità indigene e settori industriali, a cui le forze dell’ordine rispondono con un uso eccessivo della forza. Questa situazione ha fatto sorgere forti preoccupazioni per la sicurezza e la criminalità che hanno portato ad una progressiva militarizzazione delle regioni dell’Araucaria e del Biobío e alla dichiarazione dello stato di emergenza.

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UN POPOLO IN MARCIA – Per anni i Mapuche hanno subìto l’emarginazione sociale, economica e culturale. Le loro comunità sono state ghettizzate e impoverite. In molti hanno lasciato la vita a contatto con la natura per lavorare in città. Il peso della discriminazione li ha portati a non indossare più gli abiti tradizionali, a non parlare mapudungun, a cambiare il proprio cognome e a lasciare la propria spiritualità per abbracciare il cristianesimo. Nel tentativo di riappropriarsi delle terre usurpate, molte comunità mapuche hanno deciso di occupare ettari di terreno appartenenti soprattutto a latifondisti e imprese forestali. Alcuni scelgono la via istituzionale, attraverso l’ausilio di istituzioni come la CONADI (Corporación Nacional de Desarrollo Indígena), altri intraprendono una lotta ferma ma nonviolenta, altri ancora scelgono la strada dei sabotaggi e dell’autodifesa armata. La rivendicazione è territoriale, ma anche culturale. Generalmente, durante le occupazioni di terreno, la comunità inizia a istallare una ruka (tipica casa mapuche) e un nguillatuwe (complesso cerimoniale), a coltivare la terra in maniera più sostenibile, ma, soprattutto, avvia progetti di riforestazione di piante native. Inoltre, sempre più Mapuche decidono di studiare il mapudungun e iniziano un processo di riscoperta culturale e spirituale.  Di fronte a queste rivendicazioni del popolo mapuche, lo Stato cileno spesso risponde con violenza, attraverso sgomberi delle comunità in occupazione territoriale e cariche durante le proteste, nonché frequenti arresti di autorità e attivisti mapuche. Dal 2022 le regioni dell’Araucania e del Biobío sono sottoposte ad uno stato di “excepción de emergencia”, che prevede una costante militarizzazione attraverso l’impiego dell’esercito per svolgere compiti non di sua competenza, offrendo sostegno logistico e mezzi alle forze dell’ordine. Per i Mapuche il ricorso alla violenza è parte integrante della cultura delle forze di polizia e degli altri apparati dello Stato. Questo retaggio si può riscontrare anche in diverse leggi approvate recentemente che tendono a esacerbare la componente punitiva delle pene e a legittimare sempre di più l’uso della forza. In particolare, alla Legge 21560, detta “Ley Nain Retamal”, che consente la legittima difesa privilegiata per gli agenti di polizia, ampliando la possibilità di ricorrere all’uso delle armi in caso di rischio percepito, la Legge 21488 sul “Robo y hurto de madera” che ha aumentato le pene previste per il furto di legname, sia pecuniarie che carcerarie, e la cosiddetta legge “Anti tomas”, che ha ampliato la discrezionalità delle forze dell’ordine nell’effettuare gli sgomberi forzati dei terreni e degli immobili occupati.

IDENTITÀ IN CARCERE – Chi percorre le strade del sud del Cile può notare con facilità che le zone interessate dal conflitto sono costellate da bandiere blu, simbolo che in quel luogo è in atto una recuperacion territorial. Così come le storie di chi le abita sono costellate di episodi di violenza e soprusi. L’escalation del conflitto porta con se morti, feriti e numerosi arresti. Se, da un lato, la lotta per la terra coinvolge soprattutto le zone agricole e produttive del Wallmapu, dall’altro, dal punto di vista istituzionale, il terreno dello scontro si sposta nelle carceri e nelle aule di tribunale. La sempre maggiore presenza di detenuti di origine mapuche all’interno delle carceri cilene ha dato vita ad un altro tipo di lotta condotta all’interno delle prigioni. Una lotta che viene spesso realizzata attraverso lunghi scioperi della fame, il più delle volte ignorati dalle autorità e dalla politica cilena. La huelga de hambre è una tipologia di azione estrema, ma nonviolenta, che i detenuti mapuche hanno iniziato a intraprendere da diversi anni e ha già consentito loro di ottenere dei diritti che molto spesso media convenzionali e Gendarmeria (corpo di polizia penitenziaria) ritengono essere privilegi. Nella maggior parte dei casi, i detenuti cercano di ottenere migliori condizioni carcerarie e il diritto di poter continuare a vivere nel rispetto delle tradizioni e della cultura mapuche all’interno del carcere: nell’alimentazione, nella spiritualità e nel contatto con la terra. A tal fine, richiedono la costituzione di una sezione specifica destinata ai prigionieri mapuche nelle carceri, dove possano essere rispettate le prescrizioni della Convenzione ILO 169 sui popoli indigeni, ratificata dal Cile nel 2008, o in alternativa, il trasferimento nei pochi istituti penitenziari in cui esiste un modulo dedicato ai detenuti mapuche. Molti prigionieri mapuche affermano che esiste una modalità di scontare la pena molto più vicina al modo di vivere mapuche: il trasferimento in un CET (Centro de Educación y Trabajo), un centro in cui i detenuti possono terminare la propria condanna lavorando e in cui viene data la possibilità di lavorare la terra. Il rapporto con Mapu, la Terra, è viscerale nella cultura e nella spiritualità mapuche. Le cerimonie dovrebbero essere svolte all’aperto la mattina presto e i piedi dovrebbero stare a contatto diretto con la nuda terra. Tutto ciò è inconciliabile con gli orari di lavoro del personale del carcere e con gli spazi messi a disposizione. Spesso, infatti, i rituali si svolgono all’interno di una palestra o uno spazio privo di terra. Per questo motivo, chiedono l’individuazione, all’interno del carcere, di uno spazio all’aperto dotato di “pertinencia cultural”, ossia più adeguato alle esigenze, alle credenze e alle usanze del popolo mapuche. La preoccupazione per i diritti culturali in carcere non è semplicemente un capriccio. Una volta privato dei rapporti con la propria comunità, resi sempre più difficili dalle procedure carcerarie, alienato dalla propria cultura, dal proprio modo di vivere e, infine, privato del contatto con madre terra, un mapuche rischia di perdere il proprio “feyentún”. Il feyentún è un sistema di valori, credenze spirituali e azioni che collegano lo sviluppo della vita quotidiana con la cosmovisione mapuche. Senza la possibilità di sviluppare e coltivare il feyentún, il mapuche smette di vivere come mapuche, la sua vita viene privata di significato e la prigionia del corpo si trasforma in prigionia dello spirito

CUSTODI DELLA TERRA – Secondo la cosmovisione mapuche, le antiche forze creatrici dell’Universo affidarono all’umanità la custodia di Mapu, la Terra. Gli uomini avrebbero potuto nutrirsi dei suoi frutti prendendo tutto ciò che era necessario per la loro sussistenza, rispettando, però, tutte le altre forme di vita. Per questo, il rispetto della Madre Terra è un elemento costitutivo della spiritualità mapuche. Secondo questa visione, qualsiasi essere o elemento naturale, sia esso animato o inanimato, è pervaso da un’energia o forza primordiale detta “newen”. Inoltre, all’interno delle foreste, lungo le rive dei fiumi, dentro i grandi vulcani o sulle cime delle montagne abitano gli spiriti antichi chiamati “Ngen”, che mantengono l’equilibrio e l’ordine tra la natura e gli esseri umani. Per questo motivo, ogni volta che un Mapuche entra in un bosco o oltrepassa un fiume saluta lo spirito che vi abita e ogni volta che taglia un albero, raccoglie dei frutti o uccide un animale chiede permesso e ringrazia la Natura per ciò che gli ha offerto. Questa visione del Mondo è inconciliabile con il modello estrattivista che ha dominato l’economia cilena a partire dalla dittatura fino ai giorni nostri. Attualmente, infatti, il cosiddetto “conflitto mapuche” è prima di tutto un conflitto tra comunità indigene e settori industriali (come imprese forestali, elettriche, minerarie o attive nell’itticoltura) e solo in secondo luogo con lo Stato, visto dai Mapuche come protettore dei grandi interessi economici. Le imprese forestali, ad esempio, disboscano le foreste native per istallare monocolture di pino e eucalipto destinate alla produzione di legname e cellulosa. Questa tipologia di coltura intensiva impoverisce il sottosuolo, riduce la disponibilità di acqua e non permette la creazione del sottobosco, estinguendo le piante che i/le “machi” (autorità spirituali mapuche) utilizzano per la creazione dei rimedi e della medicina tradizionale. Le miniere distruggono il terreno in ricerca di risorse e minerali preziosi. Le imprese elettriche, attraverso la costruzione di dighe, bloccano il flusso dei fiumi a valle, impedendo il passaggio di acqua e pesci, e inondano i territori a monte privando le comunità di terreni utili all’agricoltura o alla pastorizia. Infine, gli allevamenti intensivi di salmone inquinano le acque e rendono difficoltosa la pesca tradizionale. Non è raro, dunque, che alle rivendicazioni territoriali si sommino motivazioni di carattere ambientale e di tutela del territorio. La cosiddetta “Lucha por la Tierra” assume quindi un doppio significato nell’attivismo mapuche, mirando, da un lato, ad un processo di decolonizzazione improntato sulla restituzione delle terre sottratte dopo la “Pacificazione” e, dall’altro, all’abbandono dell’industria estrattivista attraverso la promozione di un modello di sviluppo economico più sostenibile che metta al centro i bisogni delle comunità locali e il rispetto per il territorio.

Questo articolo è parte di una collaborazione didattico-giornalistica tra Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo e Antenne di Pace.

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