Caschi Bianchi Filippine

(AVO)CADO E MI RIALZO

Siamo cadute perché avevamo bisogno di qualcuno che ci credesse con noi, ci siamo rialzate perché finalmente l’abbiamo trovato

Scritto da Agnese Rabagliati, Casco Bianco in Servizio Civile con Caritas ad Antigue

Quando sono arrivata volevo riempire l’appartamento di piante, per renderlo più familiare e perché il verde mi rende felice. Col tempo però mi sono accorta che la casa era già ricca di fauna e allora ho abbandonato l’idea di renderla una giungla conscia del fatto che avrebbe ulteriormente attirato insetti.

Il primo mese è trascorso lento scandito dallo scroscio delle piogge; il frutto di luglio era l’avocado, qui i frutti vanno e vengono velocemente e una delle poche costanti è la banana con i suoi mille tipi, comunque abbiamo mangiato tanti avocadi in quel periodo e provato a proporre anche il guacamole (non del tutto apprezzato per via del forte sapore), ho iniziato a conservare i noccioli e riporli accuratamente in bottigliette di plastica tagliate a metà e riempite di acqua. Ero contenta perché ero riuscita anche a trovare un modo di riutilizzare le bottigliette, qui spesso impossibili da evitare.

Ormai era diventato un rituale e non potevo fare a meno di farlo, il davanzalino sopra il lavabo in cucina si riempì in fretta. Ne avevo conservati già una decina e fortunatamente la stagione dell’avocado finì perché non avrei più saputo dove metterli.

Era speciale andare a controllarli, mi regalava emozioni vederli crescere ogni giorno. Tutto era immobile in quel periodo e quelle future piantine mi davano la dimensione dello scorrere del tempo.

La lentezza fuori era contrastata dalla velocità della loro crescita, in Italia ci vogliono mesi per vedere le radici svilupparsi dal nocciolo e non è detto che poi alla fine ne esca qualcosa, qui invece, complice il clima caldo-umido, le radici iniziarono ad uscire già dopo due settimane, altre due settimane e spuntarono anche i primi gambi. Ognuna andava al suo ritmo ma tutte quante alla fine fecero la loro comparsa. Col tempo però la mia trepidazione nel vederle crescere era scemata, ogni giorno rimanevano più o meno identiche al giorno prima e così ho smesso di curarle e osservarle. Poi sono partita per il rientro in Italia di metà servizio e le mie piantine sono rimaste lì ad aspettarmi.

Quando sono tornata a fine ottobre, loro non stavano bene e io neanche. Io ero sopraffatta, con la mente offuscata come l’acqua in cui erano immerse loro. Alcune le avevo già uccise accidentalmente tempo prima (una era caduta e il nocciolo si era aperto in due), altre erano morte. Alla fine erano rimaste solo due superstite, che nonostante tutto erano ancora lì. Un giorno però ho deciso che avrebbero dovuto smetterla di crederci anche loro, le ho prese, le ho messe in un sacchetto di plastica, le ho portate al piano di sotto in ufficio, le ho lasciate lì accanto alla pattumiera in cucina e me ne sono dimenticata.

Col tempo ho iniziato a sentirmi meglio, a riacquisire forza e motivazione.

Di fianco alla cucina c’è un piccolo cortiletto un po’ incasinato ma con tante piante verdi, io ci vado di rado, ma in una giornata indefinita di dicembre ci sono andata e con mia grande sorpresa le ho viste: erano lì sanissime, interrate in un contenitore di latta. Ronnie con molta cura le aveva salvate. Qualcuno ci aveva finalmente creduto insieme a loro.

La scorsa settimana le abbiamo caricate sul pickup e portate al sito dove si stanno costruendo le prime dieci unità abitative per il trasferimento della comunità indigena Ati, progetto finanziato da Caritas Italiana. Prossimamente sceglieremo il miglior posto in cui piantarle. Ho detto a Janet, moglie del tribal leader, che tornerò fra otto anni a vedere i primi frutti. Lei era talmente onorata che quando siamo scese in paese per fare la spesa al mercato, salutando le persone tutta orgogliosa di avermi al suo fianco, raccontava delle mie piantine di avocado e annunciava la mia promessa di tornare. Quella notte ho dormito nella seconda casa costruita al sito (nella prima c’erano Janet e suo marito) sul letto gigante di legno realizzato apposta per me dai ragazzi della comunità, mi vedono più avatar di quanto io non sia. Prima di addormentarmi, cercando la posizione meno dolorosa da tenere, ho pensato che quando sono arrivata qui a giugno non c’era nulla, ora c’è il futuro di questa comunità.

Sabato mattina, 17 febbraio, abbiamo piantato gli avocadi!

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