Per Michele inizia il viaggio nel cuore della Guinea Conakry. La destinazione è la regione forestale dell’interno in cui presterà i suoi primi mesi di servizio.
13 febbraio 2014. Inizia la lunga traversata che ci porterà, con diverse tappe, da Conakry, capitale della Guinea, verso la cittadina di N’Zérékoré, nella regione forestale del paese, posta al confine tra Liberia, Costa d’ Avorio e Mali. In questa remota zona di mondo situata in Africa Occidentale svolgeremo il nostro servizio civile all’estero per i prossimi mesi a venire.
Facciamo colazione alle 7 in punto, con partenza strettamente puntuale alle 7.30. Io, Chiara – la mia nuova compagna d’esperienza in servizio -, Moira – la nostra responsabile sul campo – e Joseph – il veterano autista dell’OCPH, ovvero la Caritas locale con cui lavoreremo nei prossimi mesi nel sud della Guinea – carichiamo il pick-up attenti a non scordare le scorte d’acqua necessarie per il viaggio.
Dopo essere usciti faticosamente dal traffico della capitale ci apprestiamo a percorrere i primi 400 chilometri che ci porteranno dalla banlieu alla boscaglia alla savana arrivando infine ai margini della foresta. Le “strade” alternano lunghe piste di terra rossa con macchie di asfalto e numerose, profonde buche sparse. La polvere si alza nell’aria e si mischia al gas di scarico dei grossi autotreni che tagliano continuamente il paese trasportando cibo, vestiti, oggetti d’utilizzo quotidiano, carburante.
Rimanere imbottigliati tra i camion di una città africana, ove smog e poudre rouge si miscelano costantemente, è certamente una delle peggiori esperienze che possiate sperimentare o anche solo vagamente immaginare. Ogni minuto ci avventuriamo in una sorta di piccolo rally in cui ogni sorpasso è un punto interrogativo, ogni buca un sussulto, ogni sorso d’acqua un piccolo sollievo, fermandoci solo per improvvisare una toilette d’emergenza tra gli arbusti, fare qualche foto al tramonto, rimboccare carburante nel serbatoio (servono circa 150 litri di benzina per una singola traversata). Pare che in questa fetta di mondo il concetto di ‘viaggio’ sia strettamente collegato alla fatica fisica e mentale, alle lunghe ore di attesa, al caldo opprimente, al poco spazio da condividere per ore fianco a fianco di altre persone che, come te, non vedono l’ora di fare una pausa per sgranchirsi le gambe, nella speranza che manchino pochi minuti a destinazione.
La sera ci fermiamo per una cenetta in un piccolo ristorantino a base di poulette et riz dopo le prime dodici ore di sudore appiccicaticcio, con i vestiti velati di un pallido colore rosso-arancio a causa della polvere che volteggia nell’aria. Siamo tutti stanchi morti. Domani affronteremo la seconda parte della traversata da Faranah in direzione Kissidogou, bivio tra la cittadina di Kankan e N’zérékoré.
Si ricomincia con una piccola colazione ritardata di un’ora a causa del gestore dell’hotel ove soggiorniamo, il quale cerca di recuperare la sua ‘dimenticanza’ comprandoci in fretta e furia un paio di baguette al mercato locale (veramente ottime) da accompagnare al formaggino “La vache qui riz” (unico latticino presente nel paese), vera e propria mascotte alimentare di larghissimo consumo targata Western Africa. La tabella di marcia è leggermente spostata in avanti, ma sono segretamente felice di tardare il rientro nell’abitacolo del pick-up per rimanervi altre numerose ore di fila. Concludiamo con un Nescafè da allungare con latte concentrato nel vano tentativo di preparare un cafè au lait che sia di gradimento a degli italiani espatriati, seguito dal necessario travaso dell’acqua imbustata in bottiglie vuote da sorseggiare durante il viaggio.
Il cibo è uno degli elementi fondamentali d’incontro con una cultura locale. Le relazioni, i primi contatti umani, le amicizie, i rapporti lavorativi si costruiscono spesso mangiando insieme a quelli che, dopo un buon pasto, non sono più semplici sconosciuti. Lo noto ancora una volta quando, chiacchierando con il nostro autista, conosciamo indirettamente alcuni aspetti della sua famiglia ed in particolare di sua figlia, per la quale mette da parte una piccola confezione di “lait en poudre” [1] che le regalerà una volta tornato a casa. In quel momento ripenso ad un libro letto di recente, “Pappagalli Verdi”, in cui persino un veterano medico di guerra come Gino Strada sostiene che «la pasta è per noi, italiani girovaghi, un’arma preziosa, un mezzo sicuro per socializzare e iniziare a capirsi con gente di altre culture e tradizioni». Il cibo come veicolo privilegiato di conoscenza interculturale? Appena arrivato, cercherò di preparare un buon piatto di spaghetti ed un ottimo caffè italiano per questo straordinario autista che stiamo conoscendo poco a poco.
Si riparte. Dopo un lungo tratto di terra battuta con piccoli pois di asfalto, finalmente comincia una strada in perfette condizioni che un cartello indica essere “finanziata dall’Unione Europea”, sulla quale raggiungiamo il sud del paese in breve tempo. Ci troviamo in prossimità della zona forestale, in cui gli appalti per la costruzione di nuove infrastrutture non sono meramente gestiti da compagnie cinesi capaci di tenere ritmi di lavoro molto alti e tempi di consegna molto stretti (evidente la loro massiccia presenza sul territorio, soprattutto nella costruzione di strade che collegano grandi città).
Seguono sei ore filate di viaggio attraverso strepitosi paesaggi composti da villaggi di capanne circolari con tetto in paglia, una piccola savana che mi ricorda le “Verdi Colline” di Hemingway, bambini che corrono in mezzo alla carreggiata, vitellini e caprette da evitare con un colpo di sterzo all’ultimo secondo, tramonti con un sole simile ad un grosso pallone rosso galleggiante nel cielo, ragazzini che vendono dolci, caschi di banane e noccioline imbustate alle stazioni di servizio, uomini che propongono agoûti, un grosso roditore della foresta molto apprezzato su questo territorio (spero di ritardarne il più possibile la prova) tenendolo appeso per la coda. Questa prima traversata del paese somiglia ad una proiezione cinematografica, una prèmiere per pochi privilegiati, in cui si riconoscono volti, tipi antropologici differenti, molteplici sfaccettature culturali presenti nei vestiti, negli articoli dei bazar di quartiere, nei diversi saluti in cui la popolazione si esprime. Certo, tutto è ancora in superficie, non v’è ancora il tempo e il modo per approfondire il contesto…tuttavia, nulla passa inosservato, proprio come nella sapiente costruzione di una tavolozza di colori di un pittore: è solo l’inizio di un futuro quadro su cui lavorare con calma, pazienza e dedizione nei prossimi mesi.
Sul percorso incontriamo un camion ribaltato con numerosi operai intenti a spostare migliaia di oggetti in un altro mezzo, un autoarticolato ridotto a pezzi per un urto contro una parete rocciosa, uomini appesi al retro delle autovetture o sul tettuccio nel faticoso, folle tentativo di raggiungere la città più vicina. Questi incidenti sono molto numerosi e piuttosto comuni su queste strade di terra rossa battuta. In fin dei conti, il nostro viaggio è uno dei più comodi che si possano immaginare…
Verso lo zenith solare ci fermiamo per fare riposare il nostro autista. Facciamo pranzo in una taverna a dir poco “tradizionale” a base di riso con crema di arachidi e tentata truffa per un piatto di carne bovina composto, in realtà, solo di ossa e pezzetti di fegato. Il prezzo è molto alto: solo una lunga contrattazione potrà far tornare il numero di zeri sulla fattura vicino al reale valore del cibo consumato. Anche questo aspetto si rivelerà essere un tratto culturale ricorrente: i bianchi (in lingua locale “tubab”), chiunque essi siano e da qualunque luogo provengano, devono sempre pagare qualche ‘obolo’ in più. Dal punto di vista della popolazione locale ciò è del tutto normale, accettato, poiché tutti gli europei/americani/australiani/ecc. sono, senza differenza alcuna, considerati indistintamente molto ricchi. Gli stereotipi, verrebbe da pensare, esistono davvero ovunque; cambiano solo gli attori, i punti di vista, le modalità di rappresentazione, ma il nostro desiderio di semplificare la rappresentazione dell’altro, semplificandone la sua irriducibile complessità, è una tentazione molto forte. Non solo per noi.
Ci rimettiamo in carreggiata per percorrere gli ultimi chilometri attraverso piccole cittadine in cui, ai bordi delle strade, si svolgono i mercati tradizionali di frutta e verdura, vestiti e oggetti d’uso quotidiano, con i commercianti chiusi in piccoli, obliqui baracchini di legno che gridano per svendere le ultime offerte della giornata. Il fuoristrada arranca sulla strada dissestata con alcune pozze d’acqua (deve aver piovuto da poco), fa slalom tra le persone, evita improvvisi attraversamenti, mentre il clacson non smette mai di suonare…deve essere un lavoro davvero estenuante, fare l’autista in Guinea Conakry.
In tarda serata arriviamo finalmente a casa. Approfittiamo di una piccola cucina a gas per inaugurare la nuova dimora guineana preparando – finalmente – una moka con caffè originale Made in Italy. Quest’anno festeggiamo San Valentino con poulet braisé e birra Heineken, quattro chiacchiere ed una lunga preparazione spirituale ai mesi che verranno. E siamo solo all’inizio.
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