Caschi Bianchi Thailandia

Non benvenuti a Bangkok

L’arrivo a Bangkok è stato come una doccia fredda per Emmanuele che, vivendo con le madri dei ragazzi disabili che abitano insieme a lui, si interroga sulla sua felicità

Scritto da Emmanuele Castiglia, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 a Bangkok

Avete presente quella sensazione estiva che si prova quando uscendo di casa, col condizionatore acceso a temperature artiche da diverse ore, dopo essersi spaparanzati sul divano nei vari tentativi di zapping e scorrimento di dita sullo schermo del cellulare alla ricerca vana di qualche notizia che ci incuriosisca a tal punto da non farci vincere la pigrizia, ci si lascia alle spalle il portone di casa, facendolo sbattere il più velocemente possibile per evitare che il fresco generato dal condizionatore si disperda? È come passare da 0 a 100 in un istante, qualcosa di simile al ricevere un gavettone in faccia quando meno te lo aspetti o quando salta la corrente per un sovraccarico di corrente mentre stai giocando online coi tuoi amici e non puoi salvare la partita in corso. È una sensazione fastidiosa, lo sbalzo termico che dal fresco secco va al caldo umido, ti fa sentire improvvisamente a disagio, la maglietta si incolla al corpo per l’umidità e la pelle non respira più trasudando ogni goccia di sudore rimasto. Cominci a sentirti sporco ovunque e le tue mani poco alla volta diventano appiccicose e senti quel continuo istinto di lavarti che permane fino a che non ti lavi davvero.

Ecco, Bangkok durante la stagione delle piogge, regala questa sensazione in modo costante e invariato per molti mesi dell’anno. Il tutto accompagnato da un’atmosfera tetra e distopica, dominata da un cielo pesante e scuro come il piombo. Una megalopoli contornata da torri e palazzi costruiti con enormi masse di colate di cemento armato, vetro, asfalto, plastica e polvere. Una nebbiolina di smog e untume incessante che ti accompagnano ovunque ti sposti e non permettono di vedere orizzonti soleggiati o pianure verdeggianti al di là dell’afoso grigiore atmosferico e dei tessuti urbani cicatrizzati della città.

A tre quarti d’ora di taxi e autostrada dall’aeroporto, ed una manciata di baht, c’è un edificio chiamato “BanTewa” (“Casa degli Angeli” in thailandese) che aspetta con ansia il nostro arrivo. Ma non è un’ansia di chi attende con gioia, ma più simile ad un’ansia di chi vive costantemente l’ansia perché non sa fare diversamente. Poi ci sono i ragazzi, o gli angeli, come piace chiamarli ai missionari che hanno preceduto noi. Alcuni quando ti vedono sorridono, altri non possono farlo e si limitano a seguirti con gli occhi, tra di loro c’è chi vive lì da molti anni.

Sono giorni che si susseguono, si ripetono, con una certa routine, monotoni quasi, però nel giro di qualche mese, responsabili e volontari si scambiano e si alternano al passo con le settimane che avanzano. Attriti, dissapori e incomprensioni non mancano, fa tutto parte di quel minestrone brodoso e grasso che comunemente diamo in pasto agli ammalati, ma ne beviamo anche noi, nonostante il caldo e l’umidità. Posso dire di non essermi annoiato fino a metà di questo percorso, ma sto sperimentando una sensazione di abbandono ed isolamento, non mi sento proprio parte di una comunità vivendo questa missione.
L’associazione la sento lontana e così fatico anche a trovare un senso a quello che faccio. Le giornate scorrono e seguono il filone narrativo di una città che ha come scopo quello di produrre e guadagnare. Quello di un meccanismo aziendale paraplegico, che produce per inerzia ma che non fa veri passi avanti. Quello che si sofferma all’aspetto e non al contenuto. Ho l’impressione di essermi perso in un deserto, di avere raggiunto una destinazione inaspettata ma obbligata, ma non sono in un deserto e la metropoli è parecchio affollata. La percezione di un tempo che si è congelato, fermato ad un’estate non ancora conclusa che ho lasciato a metà e a relazioni che ho lasciato in sospeso. Qui la temperatura fatica a scendere sotto i 28 gradi, tra poco è Natale, ho lasciato casa mia che era quasi agosto, ora siamo a dicembre e qui il tempo passa, ma c’è qualcosa che non cambia. Mi sento isolato in una bolla, eppure ci sono 17 milioni di abitanti qua fuori, che freneticamente lavorano dalla mattina alla sera e sfrecciano h24 su strade trafficate da taxi motorini e pick-up.

Eppure ho scelto io di alzarmi dal divano. Ho scelto io di spegnere il condizionatore e lasciare i miei comfort ad una data ancora remota. Vivere il conflitto e affrontare la disabilità è il compito perfetto in uno scenario del genere. Si addice al copione che sto vivendo in questa fase della vita ed è come se mancasse ancora qualcosa alla missione che sto portando a termine, un viaggio più che fuori, dentro di me. La sensazione di non aver ancora capito qualcosa, come se mancasse qualche pezzo del puzzle, qualche puntino da unire sotto una sottile riga nera di inchiostro che solo alla fine mostrerà il risultato ottenuto, il disegno. Chi me lo avrebbe spiegato che qua, nonostante vivano e lavorino madri di figli con disabilità gravissime, c’è chi, nonostante un disinteresse sociale generalizzato, nonostante la miseria economica, nonostante abbandoni abusi e violenza, ha trovato un barlume di speranza per poter continuare a fare una vita non felice forse, ma dignitosa? E per noi cos’è la felicità? Il divano e il condizionatore? Avere un figlio non disabile? Il compagno o la compagna? Il lavoro dei sogni?

Se la risposta a questi quesiti è sì, allora dobbiamo riformulare i nostri pensieri, e le nostre convinzioni; cosa succederebbe se ci rendessimo conto che anche uno solo di quei tasselli che reputiamo fondamentali per la nostra felicità e il nostro benessere venisse a mancare? Saremmo ancora felici o cominceremo a farci domande? Viviamo in una realtà concreta, o ci siamo costruiti delle torri che alla prima mancanza di stabilità crollano? Perché se pensiamo che la felicità non sia altro che una somma di variabili che consideriamo positive per la nostra vita, allora quella felicità non sarà altro che un’illusione.

Forse la risposta è nella nonviolenza. La pace è la risposta, la pace con gli altri e soprattutto con sé stessi. Da lì derivano tutte le più pure forme di felicità, quelle che non dipendono dalle circostanze, ma da noi stessi. E me l’hanno insegnato non i disabili, ma le loro madri, la vera disabilità, la vedo più insita in loro che nei loro figli. Che pur essendo immerse nel disagio e nella difficoltà più assoluta, accettano col sorriso.

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