Il primo periodo in cui sono arrivata in Tanzania credo di aver toccato, in maniera ridotta, cosa e che sensazioni uno straniero prova nel trovarsi in un mondo che non è il suo; considerando poi che io ho scelto consapevolmente di passare 10 mesi in un mondo che non era il mio, per mettermi in servizio. Ecco, questa sensazione mi ha fatto molto riflettere su quanto sia importante l’accoglienza, e l’attenzione verso l’altro. Pensando al contesto italiano in cui sono tornata, credo che spesso scatti la paura nel vedere uno straniero, la diffidenza, la presunzione di sapere che tipo è. Spesso ci dimentichiamo che lo straniero è prima di tutto una persona, con una sua storia alle spalle, con un suo modo di essere, spesso consapevole di essere stato vestito di idee, convinzioni, immagini sul proprio conto.
Questi pensieri poi mi hanno portato a riflettere sul senso del servizio, sul senso di essere casco bianco, che non vuol dire sentirsi indispensabili in un luogo di missione, ma credo voglia dire rispondere con un “Ci sto!”, ed esserci completamente, non essere indifferenti a quello che ti si presenta davanti, non lasciar correre episodi o situazioni inaccettabili, ma agire rendendo protagoniste le persone che si incontrano, e camminando con loro per condividere quello che è la quotidianità. Iringa, Tanzania.
Una delle immagini che mi viene spesso in mente quando penso alla Tanzania e mi dà un senso di familiarità è l’immagine della terra e della polvere che nella stagione secca si depositava su ogni cosa. La terra in Tanzania, ti fa cambiare colore ai vestiti, ti rimane addosso, puoi provare a lavarti le mani, ma il colore rosso rimane sempre lì… penso allo sporcarsi le mani, all’essenza del servizio, che credo sia mettere al centro la persona che cammina con te, credo voglia dire incontrarsi per un bene più grande.
Se penso all’esperienza del servizio civile in Tanzania, mi viene in mente la semplicità, allo stesso tempo incomprensibilità di un mondo che non è il nostro, mi fa pensare a quanto l’essere in missione significhi accogliere gli sguardi e le storie che si incontrano, senza giudicare; mi fa pensare a quanto l’accoglienza e l’attenzione verso l’altro, in ogni momento, in ogni luogo, sia il senso dell’essere in missione; è la non indifferenza. È a questo credo che come caschi bianchi siamo chiamati nella quotidianità.
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