Caschi Bianchi Filippine

UN’ALLUVIONE EMOTIVA

Una devastazione di costruzioni e infrastrutture. Francesca racconta l’impatto emotivo che il tifone Paeng ha avuto sugli abitanti di Kalibo

Scritto da Francesca Orietti, Casco Bianco in Servizio Civile con Caritas Italiana a Kalibo

Tutto è cominciato in una normale giornata in ufficio. La pioggia era forte e costante, niente al di fuori del convenzionale in questi mesi a Kalibo, città di circa 90.000 abitanti sull’isola di Panay, nella parte centrale delle Filippine. Quando sono partita per l’anno di servizio civile come Casco Bianco ero consapevole del rischio di potersi imbattere in un tifone o in un’altra manifestazione della grandezza e della forza della natura. Ormai questa è la mia casa da qualche mese. Vivo con un altro collega, Giacomo, e non di rado si perde la copertura di rete, manca l’acqua o la città intera va in black out generale.

La velocità con la quale in poche ore l’esondazione del fiume in alta marea in combinazione con la pioggia incessante abbiano portato all’allagamento della città è stata tuttavia impressionante.

La notizia dell’alluvione è arrivata da Libacao, area in cui ha origine il fiume. Amici e familiari inviavano foto delle loro case e delle strade dei villaggi e delle città completamente allagate.

Gli uffici chiudevano, i negozi, i bar e i ristoranti pure, tutti volevano arrivare a casa prima possibile per stare con i propri familiari e arginare le conseguenze.

L’acqua continuava a salire, ora dopo ora, minuto dopo minuto e non si sapeva se e quando tutto ciò sarebbe finito. Per strada l’acqua arrivava alle ginocchia, in alcune parti della città addirittura fino alle spalle.

Ho vissuto un’esperienza per me nuova e immediatamente le mie percezioni si facevano più fini e dettagliate: tutti, persone e animali, riversati in strada e avendo “messo in pausa” quello che stavano facendo, attendevano che la natura compisse i suoi disegni.

Mi sembrava di percepire in queste persone – abituate da generazioni a convivere con i tifoni – più che il pericolo o la necessità di mettersi in salvo, “la normalità della consapevolezza” di essere poca cosa di fronte alla sua potenza.

I social tuttavia si inserivano in questo quadro con una forza altrettanto potente e in grado di mitigare quella della natura: scambiando messaggi con in nostri colleghi e amici con i quale abbiamo creato un legame in questi quattro mesi, tutti manifestavano la necessità di ricevere e dare conforto, sapere che sarebbe andato tutto bene.

Ma la vera alluvione, per me, è arrivata poco dopo, con la perdita dell’elettricità. Nell’oscurità del letto di camera mia mi ha immerso un’alluvione di emozioni, di paure e incertezze, di sensazioni, di sensi che si attivano e di pensieri che si spengono. Proprio come l’acqua che si inoltrava sempre di più, in ogni angolo della città, così questo senso di impotenza penetrava in ogni cellula del mio corpo. E proprio in quel momento sono rimasta sdraiata, in ascolto, di tutto ciò che normalmente siamo troppo impegnati ad ascoltare, ad ascoltarmi. A capire che in questi momenti, torniamo alle radici di ciò che siamo, come persone e come persone che fanno parte di una comunità. Nelle proprie differenze, orientamenti religiosi, nei propri gusti culinari, nelle proprie usanze.

In questa alluvione ciò che tieni tutti a galla è l’attaccamento a un salvagente fatto di aiuto reciproco, solidarietà e un senso di comunità che rafforza in me la motivazione a continuare su questa strada.

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