• Caschi Bianchi Apg23, 2010

Bangladesh Caschi Bianchi

Vita in longi

Moda bengalese, tra tradizioni, cultura e commercio

Scritto da Ester Lo Coco Casco Bianco con Apg23 a Chalna

“Amore, hai stirato il mio longi preferito?”

In Bangladesh sembra che gli uomini e le donne abbiano trovato la soluzione perfetta al dramma del “cosa indosso stasera”: la semplicità. Un solo abito per ogni occasione, rigide distinzioni tra abbigliamento tipicamente maschile e capi solo per lei, e pochissima scelta sul tipo di scarpa da abbinare alla mise.
Ancora, chiare convenzioni consolidate stabiliscono a che età si può iniziare a indossare un certo tipo di abito. Se in Italia non è raro vedere bambine decenni acconciate come signorine troppo maliziose, in quello che una volta era il Bengala orientale non esistono queste ambiguità: una bambina è una bambina, e si veste come tale, con vestitini al ginocchio, magari smessi dalla sorella maggiore, o completini dai colori coordinati con balze e volant. Per la scuola naturalmente c’è la divisa, vestitino per le femminucce e pantaloncino e camicina per i maschietti. Verso le medie però si sa, le ragazzine sono ormai delle signorine, e arriva il momento di indossare il primo three piece, abito in tre pezzi proprio delle ragazze non sposate, formato da pantaloni larghi dotati di una sola, profonda tasca, casacca lunga (jama), che copre abbondantemente il sedere, con lunghi spacchi laterali, e orna, una stola lunga due metri che viene usata per coprire il seno. Il three piece può essere di cotone o di seta, si compra al mercato – tre pezzi già tagliati da portare al sarto costano dai 3 ai 6 euro – o nei negozi più prestigiosi delle grandi città.

Mentre in Italia anche i neonati ormai hanno i loro minuscoli jeans tagliati su misura, o le loro microscarpette di marca, a queste latitudini non accade niente di tutto questo. I bambini molto piccoli vengono tenuti spesso totalmente nudi, non sempre vengono impacchettati con il pannolino, di stoffa, e le mamme dei villaggi di campagna cingono i fianchi del loro piccolo con il maduli, un talismano formato da un cilindro metallico riempito di erbe e chiuso con un tappo di cera, legato con un laccio. Il maduli, che può essere portato anche dagli uomini adulti in vita o legato al braccio, scaccia fantasmi e serpenti, e non è ben visto dalle suore cristiane.
In compenso non è raro, d’inverno, osservare dei piccoli teletubbies infagottati in improponibili tutine acriliche giallo canarino, complete di cappellino in tinta, donate da qualche generosa benefattrice che per i suoi, di bambini, si serve solo da Prenatal. Forse per allontanare il malocchio indubbiamente attirato da tali combinazioni, le mamme sono solite disegnare dei grossi nei finti sulle fronti dei loro piccoli e sottolinearne la linea delle sopracciglia con il kajal.

Quando una donna si sposa, sarà disposta a indebitarsi per comprare un sari decente. Ne esistono di innumerevoli tipi e colori, di seta, cotone o raso, stampati o ricamati, ma tutti sono lunghi sei metri e vanno indossati sopra una gonna lunga a vita molto alta e un top minuscolo dalle dimensioni inversamente proporzionali a quelle della gonna. Agli occhi di un’occidentale abituata ai pantaloni della tuta, indossare il sari è una vera e propria arte dai misteri impenetrabili: perché, ad esempio, le donne bengalesi o indiane hanno un’aria perfettamente aggraziata e femminile quando incedono avvolte nel loro abito, mentre io sembro un uovo di Pasqua scartato e poi malamente riconfezionato da un bambino di cinque anni? Una volta superato lo scoglio delle cinque pieghe per sei metri di stoffa, ci si può – anzi, ci si deve – agghindare con orecchini (quello al naso è un must), braccialetti e cavigliere. Le donne sposate indosseranno su ciascun polso un bracciale bianco ricavato da una conchiglia, e nel malaugurato caso che uno di essi dovesse rompersi ciò comporterà una grave sventura per il marito. Le donne hindu, in particolare, oltre al bracciale di conchiglia ne indosseranno anche uno rosso e uno dorato. Il tip invece, il famoso “bollino” rosso o di altri colori applicato con un adesivo tra le sopracciglia, viene concesso a tutte. Le vecchiette spesso indossano il loro consunto sari senza nulla sotto, ma sembra che a loro la consuetudine lo permetta. Le musulmane, invece, portano un abito chiamato maxi che, come si può immaginare, le copre dal collo ai piedi, mentre per la testa c’è il tanto discusso hijab (che qui, con il sole cocente e 45 gradi fissi, è una gran consolazione). Chalna, Bangladesh.
E gli uomini? Tra tanta scelta di tessuti, colori e disegni, anche loro, come del resto i compagni bideshi, cioè stranieri, sono avvantaggiati nel non doversi scervellare più di tanto per decidere cosa indossare. A loro sono permessi i pantaloni o i jeans, che se portati da una donna la identificano immediatamente come prostituta, e soprattutto il comodissimo longi, una stoffa rettangolare, di solito a quadri, che viene annodata sul davanti come un pareo e che viene tranquillamente portato con una t-shirt o, più spesso, una camicia a maniche lunghe. Per le grandi occasioni invece è prevista la futuwa, camicia di lino piuttosto corta, o il punjab, preferibilmente di seta e con il classico colletto “alla coreana” (che in realtà sarebbe all’indiana, ma fa lo stesso).

Ma la vera rivoluzione, almeno per quello che mi riguarda, sono le scarpe: niente tacco 12, niente zeppe, lacci alla schiava o dolorosi plateau, ma solo piattissime ed economicissime infradito di plastica, o al massimo sandali e ciabatte da mare.

Del resto, in un paese costituito prevalentemente da pianure alluvionali e periodicamente soggetto a piogge monsoniche e inondazioni, dove le donne e i bambini percorrono quotidianamente chilometri e chilometri per procurarsi l’acqua potabile, non c’è spazio per calzature che impacciano i movimenti. A proposito, lo sapevate che la Bata, che da noi è un marchio prestigioso e non certo a buon mercato, ha sede proprio da queste parti e veste i piedi della maggior parte dei bengalesi? Io l’ho scoperto a Dhaka, osservando le insegne presenti in tutta la città – e dopo aver scoperto che per molti marchi occidentali, non solo italiani, “esportare” il proprio fashion trend significa impiantare delle fabbriche dove far cucire i capi che poi rivenderanno a noi, nei negozi disseminati nelle nostre città, a un prezzo equivalente al doppio o al triplo dello stipendio di un operaio che in quelle fabbriche si guadagna da vivere lavorando dieci-dodici ore al giorno, con le sue Bata da duecento taka (circa due euro) ai piedi e una gamcha avvolta sulla testa.

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