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Caschi Bianchi Cile

Vivere lo scambio tra stazionamento e slancio

L’esperienza di condivisione diretta in una casa famiglia che accoglie persone migranti in Cile: un “cammino arricchente ma anche una sfida quotidiana”, fatta di incontro, accoglienza e conoscenza, sia dell’altro che di noi stessi

Scritto da Martina Frau, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 a Valdivia

Mi trovo A Valdivia, in Cile, la cosiddetta “Perla del Sur”, dove le mie giornate sono lunghe e piene, ma il tempo scorre inesorabilmente e i mesi volano.

Vivo in una casa con una famiglia numerosa dove, ogni giorno, per un motivo o per un altro, si susseguono numerose dinamiche da affrontare; ad esse, si affianca la questione dell’accoglienza dei migranti, per me altrettanto importante. Le ore trascorse insieme alle persone accolte sono imprevedibili: a volte intense e tese, a volte molto serene, altre volte ancora tediose. Il condividere porta a conoscere le persone nella loro interezza: con il tempo si captano luci e ombre, le quali spesso portano a lunghe riflessioni che partono dall’altro per arrivare a noi. Pazienza, apertura, accoglienza, ascolto, sono le parole che ripeto a me stessa nei momenti più difficili, quando lo stare con l’altro mi mostra parti di me più fragili.

Nella casa di accoglienza, accogliamo migranti con l’obiettivo di soddisfare le loro necessità basiche e di inserirli nel contesto sociale, sanitario e nel mondo del lavoro. Quando ottengono la loro indipendenza, lasciano la casa per lasciar posto a nuove persone in stato di indigenza. Mi trovo ad essere compagna ed educatrice, che sono due ruoli discordanti, che in alcune occasioni generano momenti di confusione. Le giornate a volte sembrano infinite e, spesso, quando esco da quella casa mi metto a pensare se la mia presenza sia stata utile in qualche modo. Ci sono momenti in cui mi sembra di fare cento passi indietro con le persone accolte, e conseguentemente con me stessa. Però è frequente vedere tutto con una luce diversa a distanza anche solo di un giorno.

Curioso è il mix culturale attuale: nella stessa casa haitiani, venezuelani, cileni e italiani ogni giorno si ritrovano a dover affrontare le questioni più disparate, che partono dalla dura burocrazia cilena nella scalata verso un permesso di residenza, passando per i numerosi centri di salute mentale, fino ad arrivare alle questioni più semplici come quella del “Que comemos hoy?” (Cosa mangiamo oggi?).

All’interno della casa sicuramente non mancano le incomprensioni e i fraintendimenti, ci si accorge spesso di quanto ciascuno di noi veda il mondo da una diversa prospettiva, è arricchente ma è anche una sfida quotidiana che richiede tolleranza, attenzione e compromesso.

Le storie sono numerose, come, per esempio, quella della donna colombiana che ha attraversato il deserto con il suo bambino, per inseguire il sogno di diventare parrucchiera e di poter garantire un futuro degno al figlio; o quella del maestro delle scuole elementari di un piccolo paesino haitiano, che qui lavora assemblando vetri e con i suoi guadagni mantiene la famiglia e manda tutti i suoi risparmi al padre malato; o ancora quella della donna venezuelana che ha passato tutta la sua vita mendicando, ed ora si ritrova ad avere un tetto e tante persone intorno a sé che si prendono cura di lei.

Dopo questi mesi, trascorsi cercando di costruire una relazione con le persone accolte e di strutturare la casa nel migliore dei modi, mi sento parte integrante del tutto, un pezzetto delle fondamenta di questo organismo in formazione, e questo mi lascia una piacevole sensazione.

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