Noi albanesi siamo come una mucca, una bellissima mucca. Che produce moltissimo latte. Ma poi, non si sa perché, scalcia il secchio e lo rovescia tutto, il latte. Noi non facciamo guerra coi nostri vicini, nei secoli ne abbiamo fatte pochissime, ma non riusciamo ad andare d’accordo tra di noi. D’altronde anche sulla nostra bandiera è raffigurata un’aquila a due teste che guardano in direzione opposta: forse è questo il nostro destino.
Se chiedi ad un albanese di descriverti l’Albania, o almeno ad uno del Nord, la descrizione che ottieni è quella qui sopra. E dopo un anno nel Paese delle aquile (anche se di aquile a quanto mi dicono non ce ne sono) non posso che essere d’accordo. In questo breve articolo vi vorrei infatti parlare un poco dell’Albania che ho vissuto, quella del Nord, quella dei montanari fieri che si salutano chiedendosi a je burrë? (sei un uomo?) e che si ammazzano per un insulto sulla sorella ho scoperto quest’anno che la sorella in Albania è argomento tabù, come parlare di banane a Palermo per esempio). Quella della gjakmarrja.
Da quando sono arrivato a Baqel, un villaggio (che pensavo) sperduto, nella regione della Zadrima a mezz’ora da Lezha e da Scutari e ad un’ora e mezza da Tirana, sono stato testimone di una ventina di omicidi per gjakmarrja, l’antica pratica a metà tra delitto d’onore e faida familiare, che impone la presa del sangue di un maschio della famiglia dell’assassino per lavare l’onore della propria, di famiglia. La gjakmarrja trova fondamento nel Kanun, il canone, l’antico codice consuetudinario che permetteva alle tribù delle montagne del Centro e Nord Albania di regolare la propria vita: dai rapporti con la religione al commercio, dal matrimonio alla giustizia.
Comunque cosa fossero Kanun e gjakmarrja interessa più agli antropologi. Per quanto ci riguarda possiamo attualmente riassumere la situazione con una parola: CAOS. Niente più regole. Si uccidono donne, bambini, si citano a caso versi del Kanun per giustificare il proprio comportamento, si fa ricorso a sicari mentre i mandanti restano nascosti all’estero. E in tutto ciò lo Stato albanese, e conseguentemente la polizia, preferiscono nascondere il fenomeno, perché in questo momento non sono in grado di affrontarlo. Gli Albanesi non ne parlano per paura di venirne contagiati, mentre associazioni senza scrupolo compilano falsi dossier per permettere alle famiglie che possono permettersi di pagare molto di emigrare nei Paesi che concedono diritto di asilo. E si che la società civile è l’unica che potrebbe riportare l’attenzione del governo sul tema, ma le associazioni troppo spesso sono indaffarate a litigarsi i numeri del fenomeno e l’appoggio delle grandi istituzioni internazionali per fare qualcosa di concreto.
Io sono un cinico, i miei colleghi lo sanno bene. Quando scrivo un progetto non mi metto a discutere di come dovrebbe essere scritto per rispondere agli ideali della pace nel mondo, ma a come riuscire ad inserire le attività che voglio far fare ai miei ragazzi secondo le linee dettate dal donatore. Non mi impietosisco del fatto che le mosche vivano un solo giorno, se mi danno fastidio le uccido.
Quando ho applicato per il progetto Caschi Bianchi: Oltre le vendette sapevo che non mi sarei dovuto occupare di riordinare il reparto dei poeti maledetti della biblioteca di Scutari. Ma la morte della mia pupilla ad opera di suo padre è stato un brutto colpo anche per me.
Era parte del nostro gruppo perché la sua famiglia era stata in gjakmarrja per dodici anni, e c’è chi dice lo sia ancora. Suo padre, che dopo averla uccisa di fronte ai fratellini di 7 e 8 anni si è suicidato, aveva ucciso due uomini. E per questo era diventato latitante. Non si era chiuso, ma era scappato con le capre nelle montagne. Diventato alcolizzato era tornato a casa, dove aveva instaurato un clima di violenza domestica, e dove rubava i pochi soldi che la moglie e la figlia maggiore guadagnavano nella fabbrica italiana di scarpe, 150 euro a testa al mese, per comprarsi il raki, la grappa.
La gjakmarrja infatti non solo uccide le vite delle persone del Nord Albania con le armi, ma distrugge anche la possibilità per i giovani di crescere in una società pacifica, dove attraverso il lavoro i più capaci possono migliorare la propria condizione. Per questo abbiamo collaborato con gli Ambasciatori di Pace. Per promuovere una conoscenza più approfondita dei conflitti e del loro funzionamento presso i ragazzi della zona, affinché abbiano gli strumenti per poterlo riconoscere e gestire in maniera pacifica. Competere senza litigare, litigare senza uccidersi. E imparare a fare a meno del fucile, degno compagno del montanaro dell’Albania che fu, e che non vogliamo più.
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