Eujin, qual è stata la tua formazione e come sei arrivata a lavorare in Kenya per UNHCR?
Ho studiato cinema e giornalismo in Corea del Sud, dove sono nata, ho proseguito gli studi nel Regno Unito e in Francia, iniziando poi a lavorare per l’UNHCR a Ginevra nel 2012. Ho poi trascorso due anni a Beirut come parte del team di produzione video dell’Agenzia per i Rifugiati durante la Crisi in Siria, producendo notizie e articoli in Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq. Nel 2015 ho conseguito il dottorato di ricerca in Film Studies presso l’Università di Lyon 2, Francia. Nel 2016 mi sono trasferita in Sud Sudan come portavoce dove ho seguito per quattro anni la crisi dei rifugiati nel Paese. Attualmente mi trovo ad operare in Kenya.
Da quanto tempo ti trovi in Kenya? Di cosa ti occupi?
Lavoro nella unità del Kenya dal febbraio 2020. Sono addetta alla comunicazione e portavoce per l’UNHCR ed è molto impegnativo avere a che fare con i rifugiati e la loro protezione durante la pandemia del Codiv-19.
Com’è l’attuale situazione dei rifugiati in Kenya?
Dunque, la realtà dei campi profughi, in ogni Paese, non è mai facile, perché loro scappando dalla propria Nazione si trovano senza la normale protezione che uno Stato dovrebbe garantire loro, come nel tuo caso quello italiano. Per questo necessitano di una protezione internazionale dalle Nazioni Unite e dallo Stato in cui sono rifugiati, in questo caso dal Kenya, e devono avere la possibilità di essere protetti fintanto che vi si trovano. Per di più, avendo già una situazione molto precaria, l’avvento globale del Covid-19 ha reso la situazione ulteriormente complicata e problematica. I rifugiati abbandonano il proprio Paese scappando dalle violenze, temendo per le loro vite e la sicurezza dei loro bambini, e devi immaginare che in questo contesto di emergenza le strutture che puoi trovare, diversamente rispetto all’Europa, sono carenti e niente è mai abbastanza e perfetto nei campi profughi.
E come state affrontando questa emergenza?
Storicamente abbiamo affrontato altre crisi sanitarie e di diffusione pandemica nei nostri campi e per molto tempo, così abbiamo una buona esperienza riguardo alle pandemie e abbiamo un sistema, un nostro sistema, con cui affrontarle. Così, in realtà, se guardi al numero di casi nei campi risulta essere relativamente basso. Abbiamo lavorato molto bene e in maniera preventiva con il governo del Kenya e il Ministero della salute per frenare da subito la diffusione della pandemia, attraverso l’utilizzo della quarantena e con la costituzione di un settore di isolamento in modo tempestivo. Non appena abbiamo avuto il primo caso di Covid-19 in Kenya, mi sembra all’inizio di marzo, abbiamo chiuso completamente e sospeso immediatamente tutte le missioni dall’esterno, perché i campi profughi hanno molti visitatori, tra cui i giornalisti, per esempio, continuando tuttavia a garantire un’assistenza medica e un minimo di struttura per fronteggiare la pandemia, cercando di prevenire la diffusione del Covid-19 nei campi profughi. Ora l’ulteriore sfida che si sta presentando riguarda l’impatto economico che sta portando la pandemia e che duramente sta colpendo il Kenya. Fortunatamente il governo kenyano ha incluso i rifugiati nei ‘piani nazionali’, anche se il vaccino di cui si sta parlando in Europa e in alcuni Stati in Asia, nella realtà keniana sembra ancora lontano e i rifugiati devono ancora essere inclusi nel piano vaccinazione. Ma noi continuiamo a sostenere che nobody is safe until everyone is safe (nessuno è salvo finché tutti sono salvi).
Dunque i campi ora sono praticamente chiusi con l’esterno. Come vi siete organizzati per gli spostamenti interni?
Esatto, il loro utilizzo è limitato, ma per esempio il Campo di Kakuma è enorme e c’è libertà di movimento, non è quindi propriamente chiuso; i rifugiati possono uscire e spostarsi nelle zone limitrofe. Ciò che è stato sospeso sono le missioni esterne, eccetto le lifesaving mission, in modo da assicurare l’aiuto umanitario. Dunque i movimenti dall’esterno sono soggetti a restrizioni e coordinati dal governo insieme all’UNCHR, perché conosciamo bene il rischio nel caso in cui il virus si diffondesse nel campo. Così anche per i lavoratori nel campo dell’Unità di Kakuma che giungono dall’esterno esiste un protocollo da seguire: devono prima recarsi a Nairobi, fare un test seguito da una quarantena preventiva di dieci giorni in isolamento, dopodiché effettuare un altro test che se negativo dà loro la possibilità di andare nel campo. Queste, insieme alle solite misure preventive, hanno permesso di mantenere molto basso il numero di casi all’interno dei campi.
Quanti sono i Campi in Kenya e il numero di rifugiati?
Sono attualmente due i campi principali: il complesso di Dadaab, situato ad Est nella Contea di Garissa, a sua volta diviso in tre campi e costituito nel 1991 a seguito della guerra civile in Somalia che ha provocato lo spostamento e l’arrivo dei profughi, e il complesso di Kakuma diviso in due aree operative: i quattro campi di Kakuma e l’insediamento di Kalobeyei, diviso in tre villaggi. Il complesso si trova nel nord-ovest del Paese, nella Contea di Turkana; poi ci sono altri rifugiati che risiedono in aeree urbane come Nairobi e diverse altre città. In totale i rifugiati sono circa 502.000, dati aggiornati a dicembre 2020.
Da quali nazioni provengono maggiormente i rifugiati?
Dunque, il campo di Dadaab è posto al confine con la Somalia quindi la maggioranza della popolazione proviene appunto dalla Somalia, ma non mancano profughi provenienti dal Sud Sudan, Congo, Etiopia. Il campo di Kakuma invece, posto al confine col Sud Sudan, ha la grande maggioranza dei rifugiati in fuga da questo Paese.
E a quale fascia di età e a quale sesso appartengono maggiormente i rifugiati?
Questa è davvero una bella domanda, posso darti i dati precisi. Dunque, il 77% sono donne e bambini, dal momento in cui, rappresentando la fascia più vulnerabile, si ritrovano ad essere la maggioranza a dover fuggire. Mentre può capitare che il marito sia coinvolto nel conflitto, le madri spesso hanno bisogno di proteggere i propri figli. In ogni altro Paese in cui sono stata donne e bambini erano sempre oltre il 50% della popolazione rifugiata.
Qual è l’andamento del numero dei rifugiati? È in crescita o in diminuzione?
Dunque, quest’anno, data la chiusura dei confini a causa della pandemia, non solo del Kenya, ma anche del Sud Sudan e della Somalia, il numero si è significativamente ridotto, ma non per altre ragioni.
Come sono state le tue precedenti esperienze in Sud Sudan e in Siria?
Non è mai facile lavorare nelle emergenze, specialmente nei pressi dei confini e dei campi. Spesso passa l’idea che tutti i profughi scappano perché vogliono andare in un altro Paese o in Europa, mentre dalla mia esperienza personale ho colto che la sola cosa che vogliono è quella di poter vivere tranquilli nel loro Paese. Per questo quando scappano ed espatriano restano sempre vicini al confine, non vogliono mai allontanarsi troppo, in modo tale che quando il conflitto termina e le violenze cessano, sono pronti per tornare indietro nel loro Paese, perché, quando non ci sono guerre, è dove si sentono a casa, protetti e al sicuro.
Quindi sì, la situazione è sempre difficile, ma in questi anni posso dire di aver imparato tanto da loro; questa penso sia la ragione per cui molti dei miei colleghi stanno vicino ai campi e li supportano. Perché loro hanno ancora la speranza, coltivano i loro sogni, con la volontà di vivere la vita che desiderano. È magnifico quando incontro una mamma rifugiata che vuole per i propri figli una vita migliore e lotta per questo ed è felice quando vede il proprio figlio in una scuola nel campo. E per questo ovviamente hanno bisogno di supporto, di aiuto, e quello che diciamo sempre è not just make them survive but make them thrive (non solo farli sopravvivere ma farli prosperare), perché questa è la loro vita e l’unica che hanno.
Avendo vissuto per anni e anni vicino ai campi, ti posso assicurare che la vita all’interno non è affatto semplice. Ma l’importante è non fermarci a questo ma guardare per esempio verso lo studente nel campo, che sogna di diventare un pilota, un dottore o un ingegnere; perché loro hanno un sogno e questo merita di essere riconosciuto e coltivato.
Nelle esperienze in questi tre Paesi, ma soprattutto nell’esperienza attuale in Kenya, com’è stato il rapporto con gli Stati e i Governi? Vi siete sentiti supportati?
Specialmente il Kenya ha fatto molto lavoro, più di quanto altri Stati stanno attualmente facendo. Hanno accolto più di 500.000 rifugiati, aiutandoli e includendoli nei servizi nazionali, come quello dell’educazione. Così i giovani rifugiati urbani, ad esempio, possono andare alla Primary School e avere le stesse opportunità di un keniano; inoltre hanno garantito l’accesso e le cure negli ospedali nazionali, così come sono stati inseriti nel piano di risposta al covid-19, così come dovrebbero essere inclusi nel piano vaccinazione. Dunque sì, il Governo del Kenya sta facendo molto per i rifugiati, ovviamente col sostegno di UNCHR, altre agenzie UN e altri partners umanitari, però ovviamente si potrebbe fare molto di più.
Per esempio?
Al giorno d’oggi non basta supportare i rifugiati che scappano, bisogna anche sostenere, per esempio, le comunità che li accolgono. Questo è uno dei punti centrali del Global Compact on Refugees, che riconosce come fondamentale il supporto della cooperazione internazionale per una soluzione sostenibile alle situazioni dei rifugiati. Il governo del Kenya sostiene e supporta quest’idea perché ci sono Contee, come il Turkana e Garissa, che non sono particolarmente sviluppate, e l’ambizione è di creare le capacità e i mezzi sia per i rifugiati che per quelle comunità, raggiungendo una sinergia per aiutare entrambi. Quindi stiamo lavorando da vicino col governo del Kenya sia a livello nazionale che di Contea, perché senza il loro supporto non potremmo fare ciò che andrebbe fatto.
Grazie mille per questa conversazione e grazie per il lavoro che svolgete quotidianamente.
Bene, spero che abbia chiarito un po’ la situazione attuale dei rifugiati in Kenya. So che stai svolgendo volontariato nella periferia di Nairobi e ne sono molto felice. Il nostro lavoro con i rifugiati in Kenya continuerà finché loro non riusciranno a tornare al loro Paese, e speriamo che molti volontari vengano a conoscenza di questa realtà, così da poter continuare a lavorare insieme.
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