Quella in atto in questi giorni in Russia è una protesta che fino a qualche mese fa sembrava impensabile. Non perché allora non si protestasse per l’esito delle recenti elezioni (amministrative, ad ottobre 2011, e presidenziali poi, a marzo 2012) ma perché stavolta a protestare non sono i cittadini, ma gli stessi deputati della Duma. Nel suo ultimo intervento da capo del governo, Putin richiama alla prosperità e all’orgoglio di essere nuovamente la grande potenza di un tempo, ma glissa su chi gli chiede conto delle frodi elettorali commesse durante le elezioni amministrative dell’11 ottobre scorso ad Astrakhan. “Se ci sono delle contestazioni sui risultati basta rivolgersi al Tribunale, non serve digiunare…” commenta sarcastico Putin, ben sapendo quanto improbabile sia l’accettazione di un simile ricorso. A quel punto pero’ alcuni deputati, sconcertati dalla battuta, escono inaspettatamente dal parlamento, lasciando Putin di stucco di fronte ad un affronto nuovo nel suo genere per la Russia contemporanea.
In qualche modo i 28 giorni di sciopero della fame e della sete portato avanti da Oleg Shein, deputato alla Duma e candidato sconfitto a sindaco di Astrakhan, sembrano aver scalfito un regime che sembrava granitico. E’ riuscito a catalizzare su di sé il sostegno delle forze di opposizione al regime di Putin, e la solidarietà di personaggi famosi come il blogger Alexei Navalny e la star della TV Ksenia Sobtchak. Non solo, manifestazioni spontanee, pacifiche e molto partecipate stanno adesso percorrendo le strade del capoluogo caspico, a 1300 Km a sud ovest da Mosca.
Eppure, pratiche poco chiare per influenzare il voto non sembrano un’esclusiva del partito di Putin, quanto una prassi purtroppo diffusa in Russia. L’esperienza diretta dei ricatti che pesano sul capo degli elettori russi ci è arrivata direttamente in casa.
“Vuoi lavorare? Allora vota ****”.
Una frase che se venisse detta da noi, sembrerebbe uno dei tanti proclami elettorali che tutti dimenticano il giorno dopo le elezioni. Anche qui ad Astrakhan, a pensarci bene, sembrerebbe il semplice slogan di un partito che per poter dire la sua alla Duma deve superare una severa soglia di sbarramento, e deve farlo soprattutto a spese di Russia Unita, il potente partito di Vladimir Putin.
Purtroppo invece è quello che può capitare di sentirsi dire dal proprio datore di lavoro. E c’è chi lo ammette in casa, a cena, in modo disarmante, quasi fosse pratica comune. Lui, appena assunto da un’azienda del posto.
Di primo acchito mi viene da pensare ”Beh, chi se ne frega? Nel seggio faccio quello che voglio, no?”. No, non alle elezioni amministrative di Astrakhan, almeno.
Il sistema è semplice, e virtualmente potrebbe sfuggire alla presenza sul posto di osservatori internazionali, che già hanno vita difficile in Russia. Chi viene ricattato non può votare dove è nato, e nemmeno qui, nel quartiere di Astrakhan in cui vive da tempo. Deve andare presso un preciso seggio che si trova dall’altra parte della città, oppure perdere un giorno lavorativo per tornare a casa e richiedere il cambio di seggio.
Eppure, nonostante questo vincolo, sarebbe ancora possibile votare in libertà. Ma il voto non è segreto, è legato ad una registrazione che prevede la scrittura di un codice individuale ed unico sulla scheda elettorale di ogni singolo votante.
Dietro a questo sistema, però, c’è una premessa importante che chiude il cerchio del ricatto proprio al momento del voto. Quando si viene invitati a votare per un partito pena il licenziamento, è probabile che la stessa assunzione sia stata patrocinata da un politico locale: un candidato sponsorizza l’assunzione di un certo numero di persone presso un’impresa, i lavoratori alle successive elezioni dovranno andare a votare in un seggio nel quale lui sa precisamente quanti e quali voti aspettarsi. Se il numero delle schede a suo favore non corrisponde al numero dei lavoratori fatti assumere, l’azienda può sentirsi autorizzata a licenziare il votante inadempiente (il cui voto può essere identificato dal codice apposto sulla scheda elettorale).
All’azienda cosa torna in tasca? L’assunzione implica un aggravio dei costi, ma la fedeltà ad un candidato o ad un partito paga certamente in termini di appalti, contratti favorevoli, ed altre facilitazioni.
Il cerchio si chiude e arriva il tempo dei bilanci: al politico voti, ed un posto sicuro in parlamento; all’azienda appalti ed un trattamento di favore, ai lavoratori un lavoro. Tutti contenti, tutti felici sembrerebbe. L’unico prezzo da pagare è altissimo e lo sanno tutte le parti in gioco: è la libertà.
Il politico sacrifica la libertà del paese a favore del suo stesso interesse; l’azienda per poter andare avanti è costretta a confrontarsi con un sistema economico lottizzato; i lavoratori pur di lavorare sono disposti a vendere il proprio voto. E così prima di uscire di casa ed andare a votare ci si guarda, ci si saluta e può capitare che uno alzi le braccia al cielo e ammetta sconsolato “Corruzione…”.
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