“Camminiamo insieme: percorsi di reinserimento sociale per i rifugiati colombiani vittime di violenza 2018” è il titolo del progetto a cui hanno preso parte Giulia e Carla come Corpi Civili di Pace con Cesc Project. Il luogo di svolgimento e di ricaduta del progetto coincidono nella città di Ibarra, nell’Ecuador settentrionale.
Il contesto del conflitto
Il conflitto sul quale il progetto intende intervenire riguarda in generale il tessuto sociale di Ibarra: le parti coinvolte sono la popolazione migrante, per lo più colombiani e venezuelani, e la popolazione autoctona. Tra gli ecuadoriani – a causa di una graduale stratificazione di stereotipi negativi – serpeggia un generale senso di diffidenza verso la popolazione migrante, il che porta molti (compresi polizia e militari) ad agire in maniera discriminatoria o intimidatoria verso i migranti. Questo atteggiamento fa sì che anche colombiani e venezuelani siano più diffidenti verso la popolazione locale.
La conseguenza principale è un generale senso di insicurezza sociale per entrambe le parti che faticano ad avere atteggiamenti diversi o a pensare a soluzioni alternative a quelle a cui sono abituati. Spesso, inoltre, il conflitto sfocia in diverse forme di violenza: violazione dei diritti costituzionali e delle norme previste in Ecuador così come dei diritti umani e abusi verbali e fisici.
Le dimensioni toccate dal conflitto sono molteplici in quanto colombiani e venezuelani sono esclusi dalla vita sociale e culturale della comunità e hanno difficoltà ad integrarsi a livello scolastico, lavorativo e sociale. Inoltre, a causa dell’impossibilità di regolarizzare la loro presenza sul territorio ecuadoriano, è quasi impossibile per loro trovare un lavoro e spesso vengono sfruttati e vivono in una situazione di precarietà e vulnerabilità economica.
Un episodio dal campo
A inizio progetto, pensando alle attività da sviluppare, era sorta la volontà di utilizzare la tecnica del teatro dell’oppresso con lo scopo di monitorare le tipologie di discriminazioni vissute dai migranti, sensibilizzare la popolazione autoctona e incentivare una riflessione sul rapporto tra migranti ed ecuadoriani che potesse portare ad un cambiamento graduale del conflitto in atto. L’idea era quella di mettere in scena il conflitto sia davanti ai migranti sia davanti alla popolazione autoctona (ovviamente sempre separati, per non innescare conflitti durante le discussioni) nelle diverse città della regione in cui vivevamo, l’Imbabura.
Le prove sono durante un mese sotto la guida di un esperto delle tecniche del teatro dell’oppresso. La simulazione che abbiamo pensato voleva mettere in luce la discriminazione razziale subita dai migranti in ambito lavorativo. In più, grazie alla comparsa di un altro personaggio (una cuoca venezuelana), volevamo aggiungere anche il tema della disuguaglianza di genere.
La simulazione è stata provata una prima volta di fronte ad un pubblico di migranti, uomini e donne, venezuelani/e e colombiani/e beneficiari di un altro progetto al quale stavamo partecipando. Essendo la prima volta che mettevamo in scena il lavoro di un mese, eravamo tutti emozionati e pronti a qualsiasi evenienza, non sapevamo infatti se il messaggio sarebbe risultato chiaro e se il pubblico avrebbe partecipato.
Fortunatamente l’esperimento è andato molto bene. Molti di coloro che hanno assistito presero parte alla scena impersonando gli oppressi e facendoci così conoscere il loro punto di vista. Tra una scena e l’altra era previsto un momento di riflessione per raccogliere le opinioni di tutti. Nonostante appunto l’imbarazzo o la difficoltà di raccontare la propria esperienza, i beneficiari risultarono felici di poter condividere le proprie esperienze e le difficoltà vissute tutti i giorni.
L’idea di utilizzare il teatro dell’oppresso era stata un’ottima idea. Infatti, grazie a questo metodo, sarebbe stato possibile raccogliere dati sia quantitativi che qualitativi e al contempo favorire la riflessione. Purtroppo però, il progetto non proseguì a causa della mancanza di una figura professionale esperta che potesse seguirci.
Evoluzioni del conflitto
È difficile prevedere la possibile evoluzione del conflitto ma in ogni caso si può ipotizzare che il conflitto tra popolazione migrante ed ecuadoriana rimanga tale o addirittura peggiori a causa della situazione post Covid-19. La pandemia ha reso ancora più precarie le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche quelle degli ecuadoriani. Per lo stato sarà difficile prendere misure efficaci per mitigare la crisi, quindi se la situazione risulta difficile per i cittadini ecuadoriani, lo sarà ancor di più per i migranti, lasciati soli o nelle mani delle organizzazioni che continueranno ad operare (alcune delle quali sopravvivono anche grazie ai fondi statali, che saranno probabilmente sempre meno). La crisi, se mal gestita, provoca insicurezza e l’insicurezza aumenta la possibilità di conflitto.
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