Viaggiamo per conoscere. Per curiosità, per rompere i nostri pregiudizi, per sete di paesaggi e di colori. Per punti di vista nuovi che ridimensionino il nostro, arricchendolo.
Viaggiamo per nuove lingue, e nuovi suoni, nuovi gesti, e nuovi tempi e ritmi.
Viaggiamo per vedere altre sofferenze, e riflettere sulle nostre. E sperando di carpire i segreti di altre gioie per estendere la nostra.
Siamo una generazione e un popolo nomade, orgoglioso di non aver radici, ma di farsi spargere in giro come semi al vento.
La nostra sicurezza e la nostra identità derivano dalla lista di posti dove siamo stati, e di tutti quelli dove siamo sicuri che andremo.
Abbiamo vissuto in giungle, mega metropoli, paesini senza strade e centri nevralgici del potere mondiale.
Ci sentiamo invincibili e vivi e veri su qualsiasi cosa che sia in movimento, un treno, un bus, un aereo. Qualsiasi cosa che ci culli con il suo avanzare, sognare guardando dai finestrini, e godere dall’attesa di non essere ancora in nessun posto.
Quando ci chiedono: ma un giorno troverai un posto dove ti vorrai fermare?, all’inizio cerchiamo di spiegare che non è così che ragioniamo, ma un po’ alla volta finiamo solo per sorridere con condiscendenza perché ci sentiamo troppo diversi.
Pochi soldi, poche certezze, ma tanto spirito di adattamento (e anche il privilegio di essere nati con un passaporto “forte”), ci hanno permesso di andare avanti convinti che nulla avrebbe potuto fermarci.
E poi arriva. L’imprevisto. Quella improbabilissima possibilità che non solo ci obbliga a fermarci, ma spesso a tornare indietro. A fermarci per un po’ al via, e a renderci conto che nonostante il nostro essere “cittadini del mondo”, un via dal quale siamo partiti c’è.
E che per fortuna, quando il mondo sta impazzendo per un minuscolo e invisibile nemico, ci può accogliere ed ospitare, al sicuro, al riparo.
Eravamo convinti di essere biciclette che si mantenevano in equilibrio solo muovendosi, e ora di colpo ci dicono che muoversi è proibito, è pericoloso. Via via un cerchio attorno a te si stringe: prima la nazione, poi la regione, poi la provincia, il municipio, e alla fine la casa. E alla fine poi, un po’ per volta nello stesso ordine inverso, si riapre il nostro raggio d’azione.
Ma cos’è successo nel frattempo a queste anime allergiche alla sedentarietà?
Una cosa magica. L’opportunità di fare pace con il posto dal quale sono sempre scappati.
È stata un po’ una terapia d’urto, come quando mettono due litiganti chiusi nella stessa stanza e non li lasciano uscire finché non hanno fatto pace.
E in questo caso i litiganti potevano essere i nostri familiari, un campanilismo che non c’è mai appartenuto, la solitudine di amicizie che non abbiamo coltivato perché siamo via da troppo tempo, la nostra cultura d’origine che ad ogni ritorno ci sembra più estranea, il dover rispettare le stagioni (senza scappare sempre in posti caldi) o una routine.
Siamo onesti, riscopriamo anche una magnifica comodità che troppo cozzava col nostro spirito di adattamento: un letto morbido, un vero bagno, non dover pensare come e cosa mangeremo, poterci spostare con quell’auto contro cui scateniamo lotte ecologiste. E questi lussi, che per un viaggiatore sono davvero dei lussi a cui rinuncia con orgoglio e se ne vanta, di certo ci hanno aiutato ad accettare questa condizione di stasi. Perché si sa, la comfort-zone ha il suo effetto avvolgente su chiunque.
E appena riaprono le frontiere siamo convinti che saremo i primi a scappare, a ripartire. Ma poi non succede.
Forse in quella stanza dove siamo stati rinchiusi, siamo riusciti a riaprire gli occhi anche sul posto in cui ci trovavamo. A vederne i colori, le bellezze, i paesaggi (ancora più belli grazie ad un mondo che per un po’ si è fermato), assaporarne i tempi, i gusti, le caratteristiche. Tornare a casa è stato un nuovo viaggio, dove abbiamo esplorato una cultura, un luogo, delle persone, che ora siamo capaci di apprezzare perché abbiamo imparato ad indossare le lenti del viaggiatore, quelle che permettono di rompere qualsiasi pregiudizio grazie all’esperienza in prima persona di un luogo.
Imparare a voler bene al posto dal quale siamo scappati per molto tempo, perché esserne lontani ci faceva sentire forti, intraprendenti, contemporanei, liberi, è un atto di nonviolenza. Fare pace, imparare a guardare con occhi nuovi, rimanere estasiati da una bellezza che non siamo mai riusciti a cogliere, è un atto di nonviolenza. Condividere il nostro bagaglio di esperienze, insegnare a vedere da un altro punto di vista, dialogare ascoltando davvero chi ci sembra lontanissimo perché non si è mai spostato, è un atto di nonviolenza.
E come disse un grande filosofo cinese (scherzo, era Ozzy Osbourne): Maybe it’s not too late, to learn how to love, and forget how to hate. Anche casa nostra.
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