Si dice che ci si accorga del valore delle cose solo nell’esperienza della loro mancanza. In mezzo ai rumori di Chimbote, emblematica città costiera peruviana dove ho trascorso i 9 mesi del mio servizio, spesso mi è mancato il silenzio delle zone dove sono cresciuta, la bucolica tranquillità della pianura friulana e dei campi vicino a casa. Ma del Perù ho amato le strade caotiche, il vociare della gente, lo strombazzare dei clacson, la musica a tutto volume: piano piano, ho imparato a lasciarmi travolgere dalla confusionaria, chiassosa bellezza sudamericana. Eppure, mi sono resa conto che su questa parte di mondo esiste un silenzio assordante: un eco che non supera le frontiere, che non riesce a raggiungere il vecchio continente, infrangendosi sull’indifferenza mediatica.
Nel confrontarmi con la realtà quotidiana, mi sono resa conto di quanto poco sapessi del Sud America e delle sue cicatrici profonde, di quanto superficiale fosse la mia conoscenza delle complesse dinamiche di questo continente al di là dell’oceano. Questo non perché non mi fossi informata, ma perché sono cresciuta abituandomi, mio malgrado, ad una narrazione monopartitica, eurocentrica, benestante. Senza dubbio, la grandezza del mondo ci condanna alla parzialità della comprensione, all’illusione della conoscenza; il rapido evolversi della realtà che ci circonda spesso fa sorgere più domande di quelle a cui è possibile rispondere, anche con tutta la buona volontà e le migliori intenzioni. Si fa fatica a riconoscere ed accettare la propria ignoranza, in quanto siamo confinati in ambienti di persone con idee simili, dove ci si scambia informazioni che si confermano a vicenda e dove la presunzione individuale viene costantemente rafforzata. Soprattutto quando si discute di questioni globali, a dominare è sistematicamente il punto di vista dell’élite dominante rispetto ai vari gruppi subalterni. Anche le notizie hanno la loro gerarchia e quelle che riguardano persone, fatti e situazioni ai margini del sistema rimangono a loro volta ai margini dei notiziari, senza una loro voce, prive di una loro storia. Come direbbe Tiziano Terzani, “la storia esiste solo se c’è qualcuno a raccontarla” e non è assolutamente scontato saperlo fare senza traslare una certa struttura mentale, di giudizi e pregiudizi, di un sistema di valori anche.
Ma sono rimasta davvero sorpresa, in senso negativo, dal desolante vuoto mediatico occidentale; un vuoto determinato forse da un banale disinteresse per realtà e situazioni che non riguardano direttamente le vite europee e che quindi non ne minacciano la compiaciuta serenità dello status quo. Con una certa dose di malizia, spesso mi sono domandata se invece questo silenzio sia frutto di una scelta consapevole e l’interesse sia proprio quello di non raccontare, di lasciare tante “parole non dette”, per preservare un silenzio che, non c’è bisogno di dirlo, fa comodo a tanti ai vari livelli del potere. Ovviamente, alcune storie sudamericane “fanno notizia” più di altre. Spesso però i mezzi d’informazione si concentrano sui vetri rotti e i lacrimogeni delle grandi manifestazioni di piazza, ignorando la profondità e le dimensioni della lenta violenza che porta a compiere quei gesti estremi, ma puramente simbolici. Le persone diventano numeri, i luoghi si trasformano in palcoscenici per ospitare la teatralità di un evento nella sua singolarità; che, una volta esauritasi, non lascia nulla dietro di sé. Anche adesso, in questo momento critico, di tanto acclamata solidarietà e comunione degli spiriti e delle coscienze, le immagini dei cadaveri nelle strade in Ecuador passano nella confusione delle cifre legate all’epidemia; ma quanto davvero riescono a scuotere, a mettere in discussione la moralità e la morale di un cittadino medio europeo? E quanto poco spazio viene dato a tante situazioni molto più tragiche delle nostre? Perché anche in questa situazione di disordine globale, l’ordine dei privilegi non si inverte. Sembra che la drammaticità delle storie non riesca a scalfire le coscienze, a risvegliare quel senso critico che porterebbe a comprendere più a fondo l’irrazionalità e l’immoralità di certe dinamiche. Qualsiasi aspirazione al cambiamento, all’esigere una giusta dose di trasparenza e verità, sembra depotenziata sul nascere. Indubbiamente, a questo concorre la moltiplicazione dell’informazione, oltre che una più studiata manipolazione di essa da parte degli interessi economico-politici.
Ma, in un mondo globalizzato e interconnesso come il nostro, conoscere ed informarsi diventano un imperativo morale, più che una scelta dettata dal caso. Le guerre, le ingiustizie, le disuguaglianze che ho incontrato sul mio cammino peruviano, e che più in generale caratterizzano la storia moderna, si possono ascrivere non solo all’intrinseca, ineluttabile conflittualità dell’esperienza umana, ma credo in misura maggiore all’ignoranza e, soprattutto, all’indifferenza di una parte del mondo, chiusa nella sua arroganza. E anche nella partita del presente, l’ipocrisia batte la responsabilità morale, oltre che storica, 1 a 0.
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