La Modernità è una pianta con le radici poco profonde in Albania, basta un soffio di vento, che viene dal mare, dall’Italia, per sradicarla. A volte si incunea ferocemente nel paesaggio quotidiano con i mille casinò di Tirana, le fermate dell’autobus che non passa mai di Scutari, i centri commerciali e le Bmw ultimo modello, ma in campagna la vita è ancora dura, persino per la Modernità: le donne con il velo, le ciocche di capelli neri ai lati del viso, ancora orgogliose, indossano i calzini rossi tipici della Zadrima; i bambini, al mattino presto prima di andare a scuola, usano una pozzanghera gelata come pista di ghiaccio improvvisata; è questo il regno delle stufe a legna, di grassi tacchini pascolati con lunghe canne, di fucili a canne mozze e di fate.
In Albania le fate sono malvagie, ti fanno inciampare in radici che prima del tuo passaggio non emergevano dal terreno, ti possono rapire e anche se il tuo corpo vaga normalmente sulla terra la tua anima è nel loro regno, prigioniera, forse per sempre. 50 anni del feroce regime comunista di Enver Hoxha hanno rapito l’Albania al suo naturale sviluppo, immobilizzando la sua gente in un incubo autartico e in una paranoia di sicurezza di cui i centinaia di migliaia di bunker ancora presenti nel paese rimangono la triste testimonianza. L’Albania era lì fra il novero delle nazioni, giocando la sua partita tra l’est e l’ovest, ma la sua anima autentica si nascondeva sulle montagne, nelle case, in un segno della croce fatto sotto le lenzuola per non farsi scoprire, in un maialino nascosto per sfuggire all’apparato comunitario del partito e garantirsi la sopravvivenza, in una critica al presidente, sospirata fra i denti, in un piccolo apparecchio che trasmetteva la tv italiana.
Adesso che l’ Albania è tornata nel mondo e il regime è crollato, non sa neanche bene lei come comportarsi, se fidarsi di nuovo delle consuetudini e tradizioni che l’hanno guidata e protetta per millenni o fare la fila docilmente, aspettando l’ingresso in Unione Europea, sostenendo l’individualismo e il capitalismo, lo stato di diritto e la legalità.
Oggi l’Albania rimane ancora lì, stralunata.
La Modernità però non si arrende e assume le fattezze di giovani emigrati che profumano di Italia e di Grecia. Quando si torna a casa però le regole sono di nuovo quelle di sempre: far sposare la sorella più piccola, insegnare al fratello minore a sparare, contendere i confini di una terra, diventare il nuovo capofamiglia e difenderne l’onore, soprattutto quando tuo padre è morto assassinato. Il telefono senza fili del villaggio ha mille versioni sull’accaduto, forse nessuna vera o forse tutte, ma su una cosa le “chiacchiere” al mercato, davanti alla chiesa, sulla strada per andare in città sono d’accordo: si tratta di gjakmarrja, vendetta. Il sangue è stato preso, l’onore riscattato e un’altra buca al cimitero è stata scavata.
La “legge del taglione” nel XXI secolo, un argomento esotico per giornalisti arrivisti e avventurieri del no profit che non si fanno scrupoli a speculare su un dramma e soprattutto sulla sicurezza di famiglie che si nascondono per evitare drammi più grandi, portando il peso di una colpa che secondo noi italiani, europei ed occidentali è di altri. In Albania ogni individuo è la sua famiglia, solidale con essa, nella buona e nella cattiva sorte. E se la cattiva sorte consiste nell’aver compiuto un omicidio a rispondere è la famiglia intera, bambini compresi. Non esiste la colpa individuale bensì collettiva. Difficile da capire per un moderno occidentale o per un cittadino di Tirana cresciuto a Coca Cola e diritti individuali. Per gli albanesi del nord non c’è niente di esotico e paradossale così come per noi volontari che ogni giorno ci confrontiamo con la paura e l’isolamento di queste famiglie, per loro, per noi, è quotidianità.
Sarebbe facile evocare un’Albania da far west, in cui si susseguono sparatorie e vendette, l’Albania al contrario avanza nella modernità dando lezione a noi, giovani italiani, semplici spettatori ed ospiti, di tolleranza, ospitalità e generosità. Alcuni dei suoi cittadini, “malok” (montanari), “katondar” (campagnoli), considerati ottusi e retrogradi dalla maggioranza degli stessi connazionali, rimangono o sono lasciati indietro, ma la loro stessa presenza, nelle loro case, te ngujuar (inchiodati), è un monito per la società albanese tutta. Un monito a dimenticare le appartenenze tradizionali claniche e l’invidualismo sfrenato, occidentale, e trovare una terza via a favore della collettività, del bene comune, di cui anche la lotta alla gjakmarrja fa parte.
La gjakmarrja è il frutto di una lotta fra fedeltà allo Stato che, ancora debole, cerca di resistere a corruzione e soprusi, e appartenenza alla tradizione, all’Albania che c’era quando lo stato occidentale come noi lo intendiamo non esisteva. Pur se dominati formalmente da imperi lontani, tra cui l’Italia nel periodo fascista, i piccoli villaggi delle montagne hanno saputo autogovernarsi democraticamente secondo princìpi che, nel 1400, precedevano la rivoluzione francese di quasi 400 anni: l’uguaglianza fra le persone e l’uguaglianza di fronte alla legge, che poteva venir meno solo a causa di atti che, violando le regole, mettevano in discussione la sopravvivenza stessa e la solidarietà all’interno della comunità.
Una civiltà “barbara” che è stata in grado di produrre un codice che trattava ogni aspetto della vita quotidiana dal diritto privato, al diritto di famiglia, da quello penale al diritto pubblico. Un codice trasmesso oralmente, che era appannaggio di tutti e conosciuto da tutti. Un codice reinterpretato continuamente nei consigli dei villaggi, specchio della società che rappresentava. Una società senza stato in cui la giustizia era demandata al privato, o meglio alla famiglia che subiva l’offesa.
Gli albanesi esistono, ora bisogna fare l’Albania, si potrebbe dire reinterpretando un celebre motto del Risorgimento italiano. Le istituzioni però non si importano come una merce qualsiasi, non esiste ancora il libero mercato dei diritti umani né dello stato di diritto occidentale. Ogni società costruisce le istituzioni che più riflettono la sua identità ma quando un’identità non è abbastanza definita o è duplice la schizofrenia è un rischio reale. La gjakmarrja in Albania ne è uno dei frutti.
Nel frattempo il paese delle aquile è ancora qui, che sceglie la sua strada, mentre la corrente elettrica va e viene, a lume di candela.
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