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Bangladesh Caschi Bianchi

Un anno da Casco Bianco

Mi chiamo Adriano Visione, 28 anni. L’anno scorso ho scelto, e a mia volta sono stato scelto: servizio civile all’estero come Casco Bianco. Idoneo e selezionato, si dice così. E allora è cominciata l’avventura, la lunga avventura in un paese lontano, che adesso ricordo col groppone in gola. Sono stato un privilegiato.

Scritto da Adriano Visone Casco Bianco con Apg23 a Chalna

Ho avuto la fortuna di vivere un’esperienza  non  ancora aperta a molti giovani, come invece dovrebbe essere! Servizio civile a Chalna, regione di Khulna, sud-ovest del Bangladesh, capitanata da Sister Franca, da Sara, da Andrea Zac, e da altre persone che passano da quelle parti.

Riassumere 1 anno d’esperienza  in una pagina è come spiegare la globalizzazione in un sms. Sensazioni, fatti, circostanze, persone, momenti bui, momenti felici…tantissime cose.

Cosa facevo lì?  È la stessa domanda che mi ponevo anch’io nei primi mesi di servizio: “Ma che ci faccio qui?”, in balia di mille “ma”, mille “se”.  Condividevo la giornata con persone abbastanza sfortunate. Fuori casta, li chiamano. Fuori! Da cosa non si capisce bene. Perché un po’ “sfigati” rispetto ad altri, e quindi emarginati. Alla fine non è poi così diverso dall’Italia.

Io ed Ester, altro casco bianco, dopo i primi mesi di “rodaggio” seguivamo il progetto psichiatrico, bengalesi con svariati problemi psichici inseriti in un percorso terapeutico: medicine, visite, etc. Attualmente sono circa 300. Tutti loro non potrebbero mai permettersi quelle cure: troppo costose!  Alcuni casi sono molto seri. Senza la terapia non potrebbero vivere serenamente.

Ci sono poi altri progetti: la scuola, la mensa, la farm, la fisioterapia. Vari ambiti, dove ognuno può dare qualcosa. E anche ricevere. Forse di più, come nel mio caso. Sicuramente non si è lì per cambiare il mondo. “Perchè l’hai fatto?” Tutti te lo chiedono. È la terza domanda che ti fanno al rientro. Le prime due sono: “cosa hai mangiato?” E “come hai fatto a vedere i mondiali di calcio?”

L’ho fatto perchè forse mi sento in debito. Siamo tutti un po’ in debito con una parte del mondo. Per qualche particolare fenomeno siamo nati da questa parte. Non so se si tratti di fortuna, destino, o altro, ma noi siamo qui e loro là. Qua bene e là male. Qua si magna e lì no. Lì ci si ammala, qui meno. E allora qualcosa glielo dobbiamo. Per me: stare lì, sapere che esistono, aver dormito, mangiato, giocato, anche pianto con loro, è un po’ come pagare quel debito.

Col passare del tempo, si metabolizza ogni giorno di più l’anno trascorso. E allora penso a quali possano essere i cambiamenti. Forse sono più sereno, e sicuramente più lucido nelle scelte di consumo: l’essenziale e il superfluo, due cose che ho ben più chiare ora! Che bello poter bere l’acqua dal rubinetto! Non è poco. Una cosa ci deve sempre mancare per renderci conto di quanto sia importante?!

E poi penso a Maruk che cerca di spiegarmi come si fa a pescare anche senza esca. Pure i pesci fanno la fame! Penso tanto a Luca, mentre lo tengo in braccio e fa la pipì… Penso a Shibu che si fa portare in spalla, a Mustafa messo seduto, ad Hannan che mi indica la luna, a Jeniffa, a Puja, a Rotna, a Kajol, Trushar, Jassin, a Kokon. Sembrano nomi, ma sono molto di più: storie, vite, che ho avuto il privilegio di conoscere.

Un’opportunità unica: condividere, vedere, ascoltare più parole di quante ne riusciamo a dire. L’occasione di mettere il naso un po’ più il là, dove molti pensano non ci sia tanto. E invece no: c’è anche di più.

Vivo in Veneto, il producente nord-est. “No go’ tempo!” Ma così c’è il rischio di chiudersi, di fraintendere, e di conseguenza, di sbagliare.

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