Eccomi qui dopo cinque mesi a Fier, centro sud dell’Albania, che provo a raccontare quello che i miei occhi hanno visto finora, alcune riflessioni che questa prima parte del mio anno da Corpo Civile di Pace (o semplicemente CCP) mi ha regalato e il senso del mio essere qui.
Partiamo da Fier!
Una città di circa centomila abitanti, città industriale dall’aria irrespirabile il cui centro è in fase di riqualificazione con tanto cemento e piste ciclabili. In tanti sembrano contenti del nuovo volto del centro cittadino, probabilmente perché è più facile apprezzare ciò che si vede che l’invisibile aria malsana che si respira ogni giorno. Ma storicamente gli albanesi non sono famosi per le grandi rivolte contro il potere costituito, una prima cosa in comune con noi italiani che ho notato.
L’immagine dell’Albania per un pugliese nato e cresciuto negli anni ‘90 era una e sola, standardizzata: una barca di disperati mal vestiti in mezzo al mare.
In realtà era un Paese chiuso e isolato, uscito da 50 anni di governo totalitario e leaderistico che al primo tentativo di inserimento nel nuovo mondo post muro di Berlino, contrassegnato da individualismo, capitalismo selvaggio e globalizzazione, era andato in pezzi sotto il crollo finanziario dei “sistemi piramidali”. In questa bolla finanziaria “avventori” albanesi e stranieri avevano promesso facili guadagni a una popolazione con gravi problemi economici lasciando come unica alternativa all’anarchia armata o al contrabbando internazionale, la strada dell’emigrazione verso l’Italia e l’Europa.
Oltre alle motivazioni legate al progetto, probabilmente anche questi ricordi hanno influito nella scelta dell’Albania come destinazione per questo mio anno nel contingente di circa 100 uomini e donne partiti dall’Italia verso il sud del mondo. La voglia di vedere di persona il Paese di origine dei tanti cittadini albanesi che arrivati sulla costa opposta dell’Adriatico hanno dimostrato il loro valore con il sudore di quei lavori “che gli italiani non vogliono più fare”. Emigranti che hanno resistito, soprattutto i primi anni – fino all’arrivo dei rumeni e poi degli africani – al razzismo degli italiani che addossavano su qualche decina di migliaia di disperati tutti i problemi di un Paese tra i più ricchi del mondo con 60 milioni di abitanti. L’Albania del 2019 a un primo sguardo appare lontana anni luce da quell’immagine di caos e illegalità a cui i media italiani ci avevano abituato e basta digitare la parola “Albania” in qualsiasi motore di ricerca per ammirare l’ennesimo miracolo turistico che il Mar Ionio sa regalare, con resort e spiagge caraibiche. La classe dirigente albanese è stata brava nel dare una verniciata di nuovismo al Paese, a cominciare da Tirana, raccontata e vissuta come capitale europea underground – una piccola Berlino (est) – ricca di grandi eventi, grandi infrastrutture, italiani, bike sharing e street art, una Tirana che quasi mal sopporta la tradizione e la cultura (troppo poco progressista) del Paese di cui è capitale. Perché l’Albania contemporanea è figlia di questo primo importante conflitto, tra nuovismo globalista europeista e tradizione antica e rurale al confine sud-est della periferia europea; è un piccolo e orgoglioso Paese laico, dove le religioni tradizionali si incontrano e si contaminano perché tanto la religione che conta è l’Albanismo; è un piccolo Paese incastrato come una rotonda sull’autostrada (costruzione tipica in Albania) tra Italia, Grecia e Turchia e le religioni monoteiste tradizionali di questi tre.
È parlando di conflitti che si incastra il mio essere Corpo Civile di Pace, in Albania, a Fier. Immerso come sono nel conflitto dell’esclusione sociale e della povertà educativa prima che economica in cui sono inseriti i bambini del villaggio rom della periferia della città più brutta e puzzolente del Paese più povero al confine sud-orientale della fortezza europea.
Il lavoro con la comunità rom di ENGIM, la ONG con cui sono qui, nasce soprattutto per arginare il continuo stato di emarginazione sociale e analfabetismo dei bambini rom, offrendo sostegno all’educazione scolastica al mattino in classe e doposcuola pomeridiano direttamente a Drizë. Alla scolarizzazione si aggiunge l’obiettivo dell’integrazione ed in questo senso si svolgono le attività ricreative offerte dal Centro di aggregazione giovanile “Murialdo”: due giorni a settimana, i bambini e i ragazzi, assistiti da animatori, educatori e volontari, giocano insieme negli spazi del Centro (campi da calcio, basket, pallavolo, sala giochi). In questo modo si dà la possibilità di fare amicizia e condividere esperienze fra ragazzi in difficoltà, albanesi “bianchi” e rom. La misura e il senso di questo più che decennale impegno di ENGIM è facile per me ritrovarlo alle 7 del mattino, quando ancora assonnato sei nello scuolabus a Drizë e un bambino di 6 anni prima ancora di dirti buongiorno, con un sorriso smagliante e gli occhi pieni di gioia ti chiede “Domenico sot Murialdo?” (Domenico oggi pomeriggio andiamo al Murialdo?) aspettando con trepidazione la tua conferma, tra i sorrisi dei colleghi del servizio civile universale che supportano le attività.
A differenza della situazione dei campi in Italia, in Albania e quindi a Fier la comunità rom vive in un villaggio, Drizë per l’appunto. Sono 1001 le cose che mi colpiscono delle scene di vita dei bambini rom cui assisto tra il villaggio e la vicina scuola che frequentano: natura contaminata abitata da cani randagi e branchi di gjel deti (“gallo di mare”, al secolo tacchino), ferrovie senza treni, monumentali fabbriche abbandonate accanto a ville, difficoltà linguistiche e semplicità dei sorrisi, abbondanza di schifezze zuccherate e cibo spazzatura, fine delle lezioni scandite da enormi campanacci suonati nei corridoi da studenti o maestre. Principale comune denominatore tra un villaggio rom e la nostra società capitalista: la disuguaglianza. Diversamente da quello che avrei pensato prima di entrare in un villaggio rom c’è disuguaglianza anche qui, ci sono i poveri e gli emarginati anche qui, quelli meno istruiti, quelli con le case che non sono case, quelli con i vestiti meno belli e caldi.
A pochi giorni dal mio rientro intermedio in Italia questo rappresenta un bilancio della prima parte dell’anno come CCP ed è importante per me chiarire che ogni parola non vuol essere un giudizio generale sul Paese o sugli albanesi perché anche io, come rispose il filosofo basco Fernando Savater a chi gli chiese un giudizio sui baschi, “Non li ho conosciuti tutti”.
N.B. Un lettore lontano dalla realtà di noi Corpi Civili di Pace potrebbe leggere alcune descrizioni in maniera negativa ma mi preme mettere in guardia dal fatto che una delle peculiarità alla base di questa esperienza è proprio quello di vivere e “sbattere il muso” contro contesti sofferti e difficili, di conflitto appunto, e che davanti alla scelta tra una ricca, cosmopolita e progressista capitale europea come Milano, Londra o Parigi e una periferia extra-lunare, inquinata, povera e arretrata, il CCP medio sceglierà sempre la seconda!
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