Uno degli obiettivi del mio servizio civile è promuovere opportunità educative per i giovani e gli adulti della comuna 8 di Medellin. Ogni giorno parlo con molte persone e cerco di motivarle a rimettersi a studiare e a cercare un lavoro. Lavoriamo insieme con attività di gruppo e individuali, sia formali che informali. E dopo un’iniziale diffidenza, spesso i giovani con cui lavoriamo si confidano con me e mi raccontano le loro storie di vita. Da 8 mesi ormai lavoriamo insieme per trovare opportunità, per coinvolgere sempre più persone e per, come si dice qua, salir adelante.
Vi riporto le storie di J. e J., così come mi sono state raccontate, uno dei tanti pomeriggi assolati di Llanaditas, il barrio dove lavoro.
J. Ho 19 anni, sono un adolescente che, per circostanze della vita, si è ritrovato in un gruppo armato al margine della legge. Ho avuto molte difficoltà con loro. Ero un drogato, utilizzavo marihuana e perico (una miscela di cocaina e anfetamina). Da quando ho iniziato a drogarmi ho iniziato a conoscere le persone “giuste”, i paramilitari che comandavano il settore dove vivevo. Ho iniziato a lavorare con loro per un po’. Ma sai, ci sono molte bande nello stesso settore. Ho iniziato con una ma poi sono passato alla banda rivale. Io presi questa decisione e questo scatenò una serie di morti, e incolparono me, perché mi reputavano l’informatore. Io sapevo tutto, le informazioni di tutto quello che si muoveva nel barrio, di tutta la zona. Mi iniziarono a minacciare verbalmente, mi dissero che me ne dovevo andare dal settore. All’inizio non ci pensai, pensavo che tutto si sarebbe rimesso a posto in poco tempo. Dopo qualche settimana iniziarono a minacciarmi nella scuola che frequentavo. Vendevo sostanze psicoattive nella scuola e arrivarono amici e familiari dei “duros”, i capi del barrio, e mi iniziarono a minacciare sempre di più, finché mi toccò rinunciare alla scuola.
Visto che non potevo più studiare, mi sono messo a lavorare in un piccolo paese vicino a casa. Lavoravo dalla mattina alla sera, tornavo a casa alle 10 di sera. Pensavo che, allontanandomi dal barrio, le minacce sarebbero sparite.
Una sera, camminando verso la fermata dell’autobus, vedo un furgoncino e due moto che mi stavano aspettando, chiedendo ai passanti di me e dove mi potessero trovare. Mi avvicino e dico il mio nome, e spiego quello che stavo facendo. Mi dissero che erano li per uccidermi, perché sapevano chi ero e la banda con cui lavoravo prima li aveva mandati a eliminarmi. Io ho iniziato a correre come un pazzo, sono riuscito a prendere un bus in una strada vicina e ad arrivare di corsa a casa. A casa c’era mia mamma e abbiamo iniziato a litigare mentre cercavo di spiegarle la situazione. Mentre stavamo discutendo, arrivò un messaggio al telefono di mia mamma. Era un audio e le comunicavano che stavano arrivando per uccidermi, e che mi stavano cercando per cielo e per terra e che se me ne andavo dal settore, mi avrebbero trovato comunque. Fecero scivolare sotto la porta un volantino, con altre minacce rivolte a me e ai miei familiari. A quel punto salutai mia mamma e uscii da una finestra. Ho corso e corso e corso. Era il 6 novembre del 2016. Sono arrivato qua a Medellin con solo le cose che avevo addosso, non conoscevo nessuno e non sapevo dove andare. Ho iniziato a vivere lì, nelle calles del centro di Medellin. Durante il giorno trovavo qualche modo per procurarmi qualcosa da mangiare, anche se erano solo 2000 o 3000 pesos (0,80 €). Ho vissuto per strada circa due mesi e ho imparato molte cose: questa vita mi cambiò totalmente, scoprii nuove droghe come il bazuko (una pasta di cocaina non raffinata e altamente tossica). Non mi importava più nulla della vita, le mie notti erano solo per drogarmi. C’erano tanti bambini, alcuni minori di 10 anni, vendevamo il nostro corpo per 2 o 3 mila pesos, per una dose. Una notte, qualcuno mi disse che c’era la possibilità di andare in un centro di recupero.
Ho provato per la prima volta la marihuana quando avevo 6 anni. Un giorno arrivarono dai miei genitori dei conoscenti e gli chiesero se potevano tenermi per un po’, come un figlio. A casa mia siamo 8 fratelli e i miei accettarono di mandarmi da loro per un po’. Io ero un bambino e non sapevo cos’era la marihuana. Però capivo dall’odore che era qualcosa di diverso dalle sigarette e vedevo i ragazzetti più grandi fumarla, e volevo essere come loro. Allora rubai un paio di canne dalla scorta della coppia dove vivevo e un giorno, che ero a casa da solo, me le sono fumate. Ebbi una sensazione stranissima, non sapevo chi ero e cosa stavo facendo, sbattevo contro le pareti… Nessuno se ne rese conto e nessuno lo sapeva. Era un segreto che ho sempre tenuto per me. Quando avevo 12 anni si ripresentò l’occasione di fumare con alcuni ragazzi più grandi e iniziai a drogarmi con frequenza, però solo di marihuana.
Ai 14 anni iniziai con la cocaina e fino ai 17 anni mi drogavo tutti i giorni. Mi rendo conto che questo non mi ha fatto bene, ma solo ora posso capire il danno che mi sono fatto. Però volevo davvero finire di studiare, era il mio obiettivo. Anche sotto l’effetto delle droghe volevo studiare. E nella comunità terapeutica ci sono entrato più volte perché volevo studiare, non tanto per disintossicarmi.Nel primo centro sono stato 15 giorni e dopo mi mandarono in un altro, dove sono rimasto un anno. Il secondo era una comunità terapeutica. Questa esperienza mi ha cambiato la vita, per l’ennesima volta. Eravamo in 45 persone, non ci conoscevamo e tanti erano bambini o adolescenti come me. Era un posto orribile, litigavamo sempre tra di noi, perché tutti eravamo in crisi di astinenza. Tuttavia mi confortava il fatto che lì avevamo tutto, a parte la famiglia, ma potevamo curarci. Le notti erano le peggiori. Ancora ho gli incubi, perché era un grido costante di disperazione. Io ho ancora il timore di ricominciare a drogarmi e dover ripassare attraverso la riabilitazione; questo timore non mi lascia in pace, non faccio tutto quello che vorrei per paura di ricaderci. Ma ci sto lavorando, sto lavorando su di me. Ora sono 2 anni che mi sono disintossicato, la sindrome di astinenza è molto pesante e specialmente qua, a Medellín, dove la droga si può trovare molto facilmente, rende tutto più difficile. Ciononostante, sono resiliente, e lotto contro il mio demone ogni giorno. Sono capace di passare per la esquina dove i miei coetanei stanno fumando e dire di no, non la voglio, non mi voglio rimettere in questo incubo. E adesso sto ricominciando a parlare con la mia famiglia, stiamo ricostruendo una relazione. Mi chiedono sempre che cosa penso di fare, qual è il mio progetto di vita. Adesso sanno che sto studiando e mi sostengono totalmente in questa decisione.
Io credo che la vita può stupirti e cambiare completamente: io due anni fa non avevo niente. Adesso ho finito il bachillerato, ho rincontrato la mia famiglia, sto studiando una tecnica con il SENA e ho fatto domanda per una borsa di studio per iscrivermi all’università. Ho imparato a volermi bene e a superare alcune delle mie paure.
Quando finirò la tecnica vorrei studiare meccatronica o ingegneria agro ecologica e, magari, quando avrò 28-30 anni avere una impresa mia.
J. Ho iniziato a lavorare da quando ho finito la scuola. Ho fatto varie cose: muratore, operario, aiuto pulizie, un po’ di tutto. Ho iniziato a frequentare i duros del quartiere da quando avevo 12 anni. Sono entrato quindi in una BACRIM (bandas criminales). Quando entri in una bacrim, o stai con loro o non stai con nessuno.
Mi sembrava fosse una cosa coraggiosa da fare, perché io amo il mio barrio e volevo che non ci fossero problemi. E la banda si faceva carico che non ci fossero problemi nel barrio: se c’è una lite tra vicini, sono loro che intervengono per mediare. Nessuno da fuori viene a creare problemi, perché ci pensiamo noi a fermarlo prima. Non si costruisce o vende niente senza il nostro benestare. E se qualcuno prova a toccare un bambino o una donna… beh, ce lo portiamo sulla montagna e risolviamo il problema. Controllavamo il territorio e quello che vi entrava: soldi, droghe, armi.
E io ero convinto che questo mi rendesse duro e forte, e sapevo di avere potere. Tuttavia, non mi bastava per vivere. E dovevo lavorare, e non potevo farlo nel barrio perché non c’era lavoro.
Mi toccò andare a lavorare a La Sierra. Ma io lì non potevo andarci, perché le bande criminali della Sierra sono nostri nemici. Ci conosciamo tutti tra criminali in questa comuna, e per essere amico della persona sbagliata o nella banda rivale, puoi anche morire.
Io andavo a lavorare, arrivavo alla frontiera o meglio quella esquina strategica che divide i due settori, ma i duros mi rimandavano indietro. Mi dicevano che da lì non potevo passare, o tornavo indietro o mi avrebbero fatto ritrovare in un canyon morto. Allora io facevo così: andavo a lavorare con una pistola in tasca. Arrivavo alla frontiera, ci guardavamo con il ragazzetto che era di turno per la guardia, valutavamo la grandezza delle nostre tasche, ci sfidavamo. Mi hanno buttato fuori dalla Sierra 4 volte, e mi costrinsero anche ad andarmene dalla invasione dove vivevo.
Ho iniziato a studiare per diventare sarto perché voglio uscire da questo sistema. Ho 27 anni adesso e ho passato gli ultimi 15 anni nella bacrim. Ho visto tanti amici morire e non voglio finire come loro. Ma loro non mi lasciano andare, mi cercano, mi tormentano, vogliono che io vada a vendere droga e a mantenere l’ordine nel barrio. Anche nel nostro settore la notte è un’altra storia: di giorno è tranquillo, ma di notte l’ambiente è pesante, è un equilibrio precario tra le varie bande criminali. E allora a volte ci vado, perché sono miei amici, ma sto cercando di allontanarmi e ricostruirmi una vita.
L’ho fatto soprattutto per la mia famiglia, non voglio che non sappiano che fine farò. Non mi posso far ammazzare per un pezzo di terra o per coprire le spalle a un altro criminale. Già troppi miei amici sono sottoterra, se continuo così finirò anche io su quel tavolo, con una famiglia distrutta. Sono entrato nel taller perché volevo solo fare qualcosa e, invece, mi sono talmente entusiasmato che ora voglio continuare a studiare. Ci sto provando, voglio costruire una unità produttiva per me e mia mamma. È difficile perché non mi lasciano in pace, è come un fantasma nell’oscurità che ti osserva costantemente.
Sono le storie di lotta e resilienza come quelle di J. e J. che mi fanno capire che scegliere di dedicare un anno al servizio degli altri è una scelta di valore. E quando questi ragazzi mi vengono a cercare nell’ufficio della ONG o mi scrivono per dirmi che hanno finalmente trovato lavoro e che stanno bene, allora capisco che questa è stata la scelta migliore che potevo fare, e mi sento orgogliosa di loro.
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