Ho conosciuto il programma della disability in CallAfrica piano piano. All’inizio era una realtà che non capivo e che quasi mi spaventava. Mi faceva sentire inadatta e altrettanto inutile. Non sono fisioterapista. Non sono una professionista.
Il mio secondo mese di Servizio Civile, aprile, l’ho dedicato interamente al progetto della disabilità del centro Shalom nella periferia di Nairobi. Eh si, dal lunedì al giovedì le mie giornate le ho passate con Stella, la fisioterapista del centro, con Pauline, la coordinatrice del progetto e con tanti diversi gruppi di mamme. Tutto è cambiato quando ho iniziato a comprendere.
CallAfrica Kenya tutti i giorni dalle ore 9 del mattino ospita all’incirca un gruppo di 15 mamme al giorno e i relativi bambini affetti da diverse patologie e problemi motori. A ogni giorno della settimana corrisponde un gruppo di mamme che segue un programma comunitario riabilitativo.
Lo scenario è alquanto sorridente. Arrivi in struttura dove ti aspettano le prime mamme, arrivate con l’affanno, che si sistemano su degli enormi materassi e iniziano a preparare i propri figli. Da lì inizia la riabilitazione. Questa, nel nostro centro, non è fatta solo di professionisti che fanno esercizi fisioterapici ai pazienti. In primis inizia con le mamme, le quali hanno un ruolo principale perché rappresentano una grande forza e tenacia. Molte di loro provengono da Kidurai 45, un distretto che non è perfettamente collegato alla nostra Soweto. Tuttavia, al mattino si alzano e, dopo aver posizionato il proprio bambino sulla loro schiena, si incamminano verso di noi. Ci credono e lo fanno. Così , dopo aver camminato un po’, arrivano e iniziano a fare i primi esercizi con i figli utilizzando gli attrezzi e le sale che CallAfrica mette a disposizione per loro. Mentre in due delle sale avviene questo, in un’altra sala ancora si prepara Stella, iniziando a chiamare un bambino alla volta con la propria mamma per iniziare il programma specifico di riabilitazione.
È di fondamentale importanza che la mamma segua all’interno la fisioterapista per apprendere esercizi nuovi che poi la famiglia dovrà riproporre a casa così da accelerare il processo di miglioramento motorio del bambino. Passano le prime due ore e poi arriva il porridge time, una pausa in cui mamme e figli gustano una bevanda nutriente chiamata porridge. Loro la adorano e noi siamo felici di preparargliela. La giornata continua con gli esercizi e, arrivati alle 13.00, forniamo alle famiglie un pasto caldo. Si mangia tutti insieme, si condivide tutto insieme. Il pianto di un bambino uscito da una terapia difficile, la ruga di qualche mamma esacerbata dalla stanchezza e dalla sofferenza del momento e i sorrisi che ci scambiamo per darci forza a vicenda.
I primi giorni non è stato semplice, molte mamme, nel conoscermi, erano perplesse. Non erano sicure di volermi mostrare la vera parte di sé, erano restie e fredde. Temevano il giudizio. Temevano il confronto con la disabilità dei propri bambini. Un vecchio saggio mi ha insegnato a dare tempo al tempo. Il tempo è necessario, soprattutto per costruire legami e relazioni. Così ho iniziato a farmi conoscere, senza invadere la loro storia, la loro vita, il loro quotidiano. All’inizio ho cercato di vivere molto i bambini, sono stata spesso di affiancamento alla nostra fisioterapista, in particolare quando alcuni bambini richiedevano la mia presenza durante la riabilitazione. Non sono fisioterapista, non sono una professionista del settore ma tendere una mano, infondere forza e coraggio, supportare i bambini che si apprestano a lottare, accompagnarli negli esercizi motori durante i quali talvolta possono sentire dolore, vale più di qualsiasi altra specializzazione. Spesso, mi sono ritrovata a dire: “forza ce la fai!“. E i risultati sono arrivati. Mamme stanche ma soddisfatte di vedere il proprio bambino che durante il giorno ha fatto un piccolo passo avanti, un piccolo progresso. In quelle situazioni rammento che è sempre dalle piccole cose che si parte.
I miei primi giorni sono stati duri. Poi ho guardato, scrutato e osservato le mamme di quei bambini. Se possono farlo loro, posso farcela anche io. Posso supportarle e posso sostenerle. Questo è quello che sta avvenendo. Facciamo un programma di riabilitazione condiviso tutti insieme, in cui non mancano occasioni di convivialità e conoscenza personale. Molto spesso, tra un esercizio e un altro ci ritroviamo ad affrontare discorsi sulla disabilità. Una domanda che mi è rimasta impressa è:”in Italia ci sono bambini come i nostri? Esiste la disabilità?” E io dopo aver sospirato, ho spiegato loro che la disabilità esiste in tutto il mondo, non è un problema e le persone affette da disabilità non sono mostri. Sono umani come noi portatori di diritti che vanno rispettati nella loro dignità. La cosa fondamentale è parlarne, conoscere, informarsi e informare gli altri, sensibilizzare così da cercare di cancellare lo stigma della disabilità. L’integrazione e la non esclusione sono altri due fattori di intervento che aiutano a far sì che la disabilità venga vista sotto un’altra lente. DISABILITY IS NOT INABILITY.
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