Incontro, lavoro e abito con persone che hanno vissuto in strada e/o in prigione. Uomini, o meglio, maschi, perché anagraficamente uomini alcuni non lo sono ancora. L’età infatti varia, dai 14 ai 38.
Disagio e stigma relegano detenuti e ragazzi di strada ai margini del contesto sociale di un paese, il Camerun, che i primi posti a livello internazionale li occupa solo in termini di diffusione della corruzione, e che si trova nel continente che da sempre guarda gli altri dal basso. Sono quelli che potremmo definire “gli ultimi”, anzi, nel nostro caso “gli ultimi degli ultimi”. Già, perché anche in strada e in prigione vi sono gerarchie e relative disuguaglianze, frutto di egoismo e avidità.
Ci siamo accorti che i principali interessati alla nostra proposta di reinserimento sociale post-detenzione sono quasi esclusivamente quelli che, alla Prison Centrale de Bafoussam, chiamano “i pinguini”. Sono coloro che non ricevono visite dall’esterno, o perché la famiglia è distante e priva di mezzi per raggiungere il carcere, oppure perché una famiglia non ce l’hanno più.
Niente visite significa nessun aiuto, economico, materiale o giuridico. Andiamo con ordine: posta la non applicazione di molte leggi, essenzialmente in prigione si ha un tetto e un pasto al giorno (sempre lo stesso, a parte il venerdì). Scrivo “tetto” e non “letto”, perché il posto letto, 1/3 di materasso su letto a castello, lo paghi all’amministratore informale, per non dire strozzino, della tua cella; se non paghi dormi per terra. Inoltre, alla lista non aggiungo “acqua” non perché sia scontata, affatto. I problemi al sistema idrico (acqua comunque non potabile) riguardano l’intero contesto urbano e gli istituti penitenziari non fanno eccezione; per questo, quando piove, in prigione è festa.
È chiaro come un aiuto proveniente dall’esterno sia fondamentale per migliorare, anche di poco, delle condizioni che rimangono in ogni caso ben lontane dal rispetto dei diritti e bisogni dell’essere umano. Infine, lentezza della giustizia e corruzione dilagante rendono indispensabile la presenza di una persona fidata, che possa dall’esterno interagire con il tribunale assicurandosi, in una maniera o nell’altra, l’avanzamento del dossier. Insomma, mancanza di cibo, di igiene e di giustizia, sono le uniche condanne certe, fin dal primo giorno, per un “pinguino” in un carcere nel West Camerun.
Come detto, vivo con persone, adulti e minori, che questa condizione l’hanno vissuta e che hanno scelto poi di intraprendere un percorso di vita comunitaria con l’obiettivo del reinserimento sociale. Prima di vivere assieme, ci conosciamo in prigione, durante incontri settimanali di un paio d’ore. Il progetto rieducativo si sviluppa secondo valori universali quali il rispetto, la pazienza e la perseveranza, a motivazione e fondamento di una scelta di vita diversa da quanto vissuto in precedenza.
Ascoltando le loro storie e incrociando quotidianamente i loro comportamenti, però, penso che, da un certo punto di vista, non abbiano bisogno di niente. Mi spiego: cosa può mancare a una persona che è stata capace, da sola, di sopravvivere alle condizioni di “pinguino”? Onestamente, in prigione ti viene da domandarti se tu, al posto loro, avresti il coraggio di continuare a vivere. Invece lì dentro non trovi solo dei corpi che sopravvivono, ma esseri umani che ti accolgono sorridenti, puliti e con il miglior vestito a disposizione. Gioiosi, sono pronti a giocare, cantare e pregare assieme. Un condannato a vita della prigione di Dschang, ogni lunedì, mi viene incontro per far due chiacchiere: qualche domanda di circostanza, una risata, poi mi saluta e se ne va, non partecipa nemmeno agli incontri né mi chiede qualche favore. Chi glielo fa fare? Dove trova quel coraggio e dignità? Mi chiedo: quale battaglia può preoccupare qualcuno che ha vinto la disumanizzazione di un posto come quello? In tal senso, consapevole della parzialità della prospettiva, dico che queste persone a cui manca tutto, non hanno bisogno di niente. Il solo fatto di essere vivi e ancora umani, testimonia che in loro c’è tutta la forza di cui hanno bisogno, per affrontare la sfida del reinserimento sociale e qualsiasi altro ostacolo nella loro vita. A tale ricchezza, noi “educatori”, non abbiamo nulla da aggiungere, se non l’invito a saperla riconoscere e sprigionare; per il resto, siamo noi ad imparare.
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