Ieri ho avuto la fortuna di vivere una sensazione analoga a quella che si prova soffiando sopra un castello di carte. Mi sono divertito, come ci si diverte quando si scompigliano i capelli a qualcuno particolarmente ben pettinato. Chalna, Bangladesh. Il college. Foto di Daniele Spinelli, gennaio 2008.
Si tratta di quel sottile piacere che sorge quando si osserva un qualunque sistema caratterizzato da un ordine non casuale venire messo in discussione, osservarlo perdere l’illusoria certezza della sua immutabilità.
L’evento della giornata di ieri qui a Chalna,
la cittadina rurale dove si trova la missione
della Comunità Papa Giovanni XXIII,
era l’incontro calcistico tra la squadra locale
e la favorita squadra di Khulna.
L’incontro si inserisce all’interno del torneo
a sei squadre organizzato dalla
rete televisiva privata ATN, nella regione di Khulna.
Il mio divertimento non è dipeso certo dalla partita di calcio.
Non sono un amante di questo sport, e in particolare non amo quello italiano, perchè oltrechè noioso, mi sembra anche offensivo. Sono offensivi, nei confronti di quelli che si spaccano la schiena o si macerano di tensione in un ufficio per otto ore al giorno per garantire alle loro famiglie un’esistenza dignitosa, gli ingaggi spropositati con cui il sistema retribuisce i calciatori. È offensivo vedere quanto spazio viene loro concesso dai mezzi di comunicazione di massa, che con il loro quarto potere riescono a trasformarli in idoli e modelli, senza che tuttavia ci forniscano stimoli concreti per un’elevazione morale.
Il campo da calcio si trova all’interno del Mobarak Memorial College, la scuola superiore di Chalna. È un campo che possiede una staordinaria e folkloristica peculiarità: le linee laterali anzichè essere segnate con il gesso sono dei meravigliosi canaletti d’acqua, scavati ad arte, che ricordano le lente e limacciose acque del Gange.
Ma ciò che colpisce l’attenzione prima del campo da calcio, è l’ostello femminile, che ospita una cinquantina di studentesse, e che con i suoi tre piani in muratura, domina le capanne che si trovano lì intorno. La struttura è fatiscente, i muri anneriti o scrostati e le grate sulle finestre e lungo le balconate lo rendono all’apparenza un posto poco invitante per viverci. Ma questo è solo il mio punto di vista. Forse nei pensieri di una studentessa che vi alloggia, le stanze spoglie e cadenti sembrano l’anticamera del paradiso, perchè rappresentano la possibilità di avere un futuro migliore di quello a cui sarebbe destinata rimanendo a casa, un’istruzione che le consentirà di impossessarsi della propria vita ed emanciparsi attraverso un lavoro qualificato dalla dittatura dell’uomo – padre, marito o fratello che sia – così comune in queste sperdute aree rurali.
Sono arrivato al campo da calcio a pochi minuti dall’inizio del gioco, in compagnia dell’insegnante di computer del collegio. Ha pagato per entrambi, 10 taka (0,1 euro), e mi ha portato davanti al cancello dell’ostello femminile.
Appena entrato alcuni dei ragazzi della missione mi hanno chiamato e mi hanno invitato ad unirmi a loro a bordo campo. Tuttavia, con un rapido e cinico calcolo, osservando la folla radunata ai lati del campo, sentendo il sole del primo pomeriggio che picchiava sulla mia testa e notando la mancanza di sedie, ho rifiutato l’invito e ho seguito il maestro verso l’edificio. Il custode ha aperto il cancello e siamo saliti al primo piano, dove sono stato accolto dal sorriso cordiale e ospitale del corpo docente dell’istituto islamico, riunitosi al completo per quell’occasione sulla balconata, protetta dalle inferriate. Da un lato gli insegnanti e dall’altro le insegnanti.
Mi sono seduto con gli uomini ma, dall’alto della mia postazione, seduto sulla sedia fatta portare apposta per me, ho cominciato a sentire un profondo disagio. Guardando tra la folla vedevo infatti che i ragazzi della missione ed in particolare i ragazzi cristiani che frequentano la parrocchia con cui ho stretto amicizia all’uscita della chiesa dopo la messa quotidiana, guardavano insistentemente verso di me, seduto in quello che iniziavo a identificare come il corrispettivo della costosissima tribuna d’onore del Meazza.
In realtà le autorità presenti all’incontro, il sindaco, il capo della polizia, i presidenti delle squadre, erano seduti sotto un tendone all’altezza del centro campo. Tuttavia anch’io mi trovavo in un posto d’onore, quello riservato ai maestri. Così come in Italia, anche in Bangladesh la differenziazione delle possibilità d’accesso ai beni e ai luoghi dipende in larga parte dai soldi. Ma da queste parti c’è anche qualcos’altro, pensavo, qualcosa di diverso. E nella testa ha cominciato a frullarmi come un mantra tibetano una parolina di sole cinque lettere che tuttavia ha avuto ed ha degli effetti dirompenti sulla vita di un individuo. Questa parola magica è casta. Una parola che possiede l’aspetto terrificante degli spettri dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia che per secoli hanno tiranneggiato impuniti sulla povera gente del subcontinente indiano.
Chiedendo in giro in che cosa consiste il sistema
delle caste ho sentito diverse intepretazioni.
Ma il più delle volte ne ho sentito negare l’esistenza.
Qui non è come in India, ti dicono.
E alla fine finisci anche per crederci.
Se non fosse che basta fare due passi
per le strade e ci si può rendere conto che
il Bangladesh è un paese profondamente ineguale,
dove in ogni situazione c’è sempre qualcuno
che sta sopra e qualcun altro sotto, un gradino più basso. Niente di istituzionalizzato, è una forma mentale, un fattore culturale, l’eredità del lungo periodo di dominazione politica da parte dei Bramini indù prima e dei colonialisti inglesi poi.
Per comprendere questo complesso e impalpabile fenomeno, mi viene in aiuto una riflessione tratta da “Crucial Issues in Bangladesh”, di Peter Mac Nee, un missionario protestante che venticinque anni fa, a cavallo di una motocicletta viaggiò per il Bangladesh per svolgere un’indagine sull’intero Paese ed in particolare per definire la natura della Chiesa cattolica e protestante, la sua composizione e i suoi background etnici. La citazione a sua volta è tratta dallo studio sul sistema delle caste scritto da Padre Luigi Paggi, “Caste e Intoccabilità”, edito dalla Pro Manuscripto.
Mac Nee ci spiega che:
“In Bangladesh uno è spesso tentato di pensare che le caste non esistano più. Questo probabilmente perché la società musulmana, per chi viene da fuori, sembra essere una società priva di caste e senza dubbio afferma di esserlo, mentre la società Indù, sotto la pressione dell’Islam, ha modificato la sua apparenza esteriore per quanto riguarda il mangiare e la contaminazione. A causa della situazione economica molte persone hanno abbandonato le occupazioni per tradizione tipiche della loro casta.
Le basilari strutture democratiche dei governi locali introdotte dal Presidente Ayub Khan nel 1960 rimpiazzarono in diversi luoghi il sistema di governo fondato sulle caste e chiusero con le caste come organizzazioni politiche. Tutto ciò ha senza dubbio contribuito a creare confusione.”
Perciò, continua Padre Paggi:
“Se non proprio la struttura in caste, quantomeno la mentalità di casta si ritrova tra i nostri fratelli bengalesi musulmani, quasi nella misura in cui è presente tra gli Indù e tra i pochi cristiani bengalesi.
I libri di storia, sociologia e persino di antropologia
dicono pochissimo a proposito del sistema delle
caste in quanto origine dell’ineguaglianza e quindi dell’ingiustizia.
Senza voler cercare una qualche ragione particolare
per questa cecità nei confronti delle caste,
potrebbe essere sufficiente dire che le persone
sono a tal punto abituate all’esistenza di una gerarchia
nella vita sociale che non pensano neppure che vi potrebbero essere altre modalità di rapporto all’interno di una società.”
Per attenuare in un qualche modo il mio profondo disagio, la fastidiosa sensazione del privilegio, che da occidentale in un paese in via di sviluppo spesso ti trovi ad affrontare, mi sono scusato con il maestro, gli ho detto che sarei tornato nel giro di qualche minuto e sono sceso per andare a chiacchierare con questi ragazzi nell’attesa che cominciasse la partita. Uscito dal cancello mi hanno accolto come al solito circondandomi. Era palese il loro desiderio di venire a vedere la partita insieme a me sulla balconata del collegio, da dove tra l’altro, per la cronaca, si godeva di una pessima visuale, a causa delle sbarre, della distanza dal campo da gioco e del sole contro. Solo dopo mi è venuto il sospetto che il loro interesse derivasse non tanto dalla mia postazione quanto dalla possibilità, una volta entrati, di sgattaiolare al piano superiore per andare a chiacchierare con le studentesse. Li ho quindi invitati a salire con me, ma il custode ha detto che non era possibile. Quando ho chiesto delle spiegazioni ad uno di loro, di nome Litton, un intelligente ragazzo del quartiere cristiano che studia in seminario a Dacca grazie ai fondi che la missione distribuisce, mi sono sentito rispondere: “…because teachers are very important people”.
Allora capisco. Quella dei maestri è una piccola casta. Non ricca, ma molto rispettata, in virtù della funzione che svolge e del ruolo che ne consegue all’interno della società.
Poi ho visto venire verso di me, come al solito in braccio alla mamma Punnima, Shibu, un intelligente ragazzino spastico di forse sette anni, hindu, che insieme alla madre e al fratello Moit, un ragazzo meravigliosamente quieto e silenzioso, vive da anni nella missione.
Il sole delle tre del pomeriggio picchiava implacabile sulle nostre teste. Così la mamma mi ha chiesto se potevo prenderlo con me e tenerlo all’ombra durante la partita. Con gioia l’ho preso in braccio e ho chiesto al custode se almeno lui potesse salire con me. Al suo comprensivo cenno d’assenso ho chiesto anche se potesse salire anche la mamma, nel caso il bambino avesse cominciato a piangere. Ottenuto il via libera per entrambi, abbiamo varcato il cancello e siamo saliti.
Salendo le scale ho accompagnato Shibu e la madre verso il mio posto a sedere al primo piano e li ho fatti accomodare su un tavolino della balconata insieme ai professori.
Non potrò mai sapere cosa hanno pensato i maestri quando hanno visto Punnima e Shibu sedersi lì con loro. Ho notato chiaramente dai loro sguardi un profondo stupore. E sono sicuro che per un attimo hanno sentito che qualcuno stava fastidiosamente scompigliando la loro accurata pettinatura. Non so esattamente che cosa li abbia colpiti di più, se il bambino spastico che ogni volta esce dalla missione attira un sacco di sguardi curiosi, oppure la consapevolezza che una donna, per di più appartenente ad una delle caste più basse, avrebbe guardato la partita seduta insieme a loro.
Certamente il Bangladesh non è l’Afghanistan. Uomini e donne camminano insieme per le strade, e seppure non si tengano mai per mano, frequentano gli stessi posti e si scambiano occhiate, sorrisi e battute ad alta voce. Tuttavia le donne sono ancora incatenate alle decisioni dell’uomo e nelle famiglie, se il denaro manca, i figli vengono favoriti rispetto alle bambine riguardo all’istruzione, alle cure ed anche al cibo. I matrimoni combinati sono ancora molto diffusi. La maggior parte delle donne non è velata, ma la lista dei divieti non scritti che regolano quel che non devono fare onde evitare il disprezzo dei parenti e della comunità è lunga.
Non so nemmeno a cosa pensassero Shibu e la mamma, che tuttavia mi sembrava nascondessero del gran divertimento dentro di loro. Lo stesso che ho provato io nel mettere in discussione lo status quo, e ricordarmi della sua plasticità. Il divertimento che si prova quando ci si rende conto che nessun sistema ordinato è eterno, neanche l’universo, e che le secolari relazioni di potere all’interno di un gruppo sociale non sono incrollabili, bensì possono essere modificate, all’improvviso o con lentezza. Da queste parti il cambiamento e la conquista di una maggiore uguaglianza nelle relazioni tra gli esseri umani saranno lente, ma sono certamente già in atto. Molti lo confermano. La scintilla è scoccata nelle grandi città, come Dacca e Chittagong, e come i cerchi concentrici provocati da un sasso lanciato in mezzo alle acque di uno stagno, il suo effetto comincia ad arrivare anche nelle zone rurali.
Grazie a questa serie di eventi il primo tempo è volato via in un attimo. È stato davvero uno spasso, durante quei primi 45 minuti, osservare i maestri riprendere la loro normale compostezza, fatta di gentilezza e cortesia nei miei confronti e disinteresse verso Shibu e sua mamma.
Alla fine del primo tempo sono poi andato a curiosare al piano superiore dell’edificio dove c’erano le studentesse con le loro mamme e sorelline. Shibu e la mamma si sono fermati al secondo piano, in mezzo alle donne, dove subito qualcuno ha offerto dell’acqua per il bambino. In quel momento ho pensato che se un giorno, nei luoghi dove si esercita il potere, siederanno più donne e meno uomini, probabilmente la situazione del nostro pianeta comincerà a migliorare.
Il risultato finale è stato 4 a 1 per la squadra di Khulna.
Non chiedetemi i nomi dei marcatori.
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