Corpi Civili di Pace Ecuador

Amico fragile

Riflessioni su confini e identità, nel dramma di chi è costretto a lasciare la propria terra

Scritto da Rosaria Giorgio, Corpo Civile di Pace con FOCSIV a Quito

“La morte verrà all’improvviso
Avrà le tue labbra e i tuoi occhi
Ti coprirà di un velo bianco
Addormentandosi al tuo fianco
Nell’ozio, nel sonno, nella battaglia
Verrà senza darti avvisaglia.”
De André, La morte.

Salendo in cima al Panecillo, icona e simbolo dell’Ecuador, guardando attraverso i decori della ringhiera da quasi più di 3000 metri sul livello del mare, ecco che, al di là della collina sagrada e immacolata, la capitale prende forma.
Guardare Quito significa guardare indietro nel tempo, l’insostenibile pesantezza della storia, lo specchio in cui l’avarizia e la brama dei potenti hanno prosciugato le vite e le ricchezze dei popoli; significa anche guardare il terreno su cui sono stati e continuano ad essere gettati i semi della rinascita e della speranza, soprattutto in questi giorni di tensione e movimenti politici che hanno scritto un pezzo di storia ecuatoriana, latino americana e internazionale.
Dalla splendida collina uno può vedere la propria vita e anche quella degli altri, plasmata e cristallizzata in case di fango e nello splendore dei grattacieli che si estendono sulle pendici del vulcano Pichincha che sovrasta e domina la città e si innalza al cospetto della Cordillera de los Vulcanos, unica al mondo.

Esattamente da questo punto panoramico nasce la mia riflessione, in un giorno nuvoloso e particolarmente importante per me.
Il diritto all’individualità, tanto caro a Bauman, sembra non aver spazio in questa epoca. Ormai è un delitto o un peccato scegliere la propria identità o tentare di assumerne una nuova. Ognuno di noi vacilla nell’effimero confine che separa due mondi e stati d’animo che sono al giorno d’oggi le parole d’ordine: inclusione o esclusione. Entrambi contrari dello stesso mondo ma governati dalla unica nuova forza, non più sana ma parassitaria, che è la pressione politica che cerca sempre più di trapiantarsi e sostituirsi al pensiero naturale e biologico di accettazione, solidarietà e lotta pacifica nel rivendicare i propri diritti identitari.

Nell’ultimo periodo storico riecheggiano a voce sempre più squillante i concetti di confine e di frontiera, descritti come spazi dove si consuma violenza, germoglia discriminazione e xenofobia. Spazi, ormai, psico-politici di esclusione sociale e falsa illusione.
Ed è qui che ci tocca far i conti con il quasi radicamento del pensiero psico-politico: accettare passivamente di essere parte del confine e proteggere una sola individualità rifiutando alterità culturale, o scegliere una politica che sia più umana e nonviolenta, volta alla costruzione, giorno per giorno, poco alla volta, di identità solidaria, umanitaria e comune.

In fondo, esistono spazi, confini e frontiere che separano culture, tradizioni, usi e costumi. Per quanto sia reale una differenziazione identitaria e culturale, rimane invece immaginaria la linea che separa la dipendenza affettiva tra migranti erranti divisi dai vari confini geopolitici.
Un esempio sono le grandi città, le metropoli, come Quito, nella quale convivono diverse culture in un unico grande confine tracciato nel tempo, nel quale sono visibili differenze sociali, etniche, economiche e culturali.Una città dalle mille opportunità – almeno così si spera – che però non sono offerte alla maggior parte dei migranti. Ciò che loro è dato, sono solamente luoghi impolverati e periferici, lontani dal centro coloniale splendente, luoghi di emarginazione confinanti.
Il perché della presenza di numerosi migranti radicati nei luoghi periferici della capitale è frutto di corruzione, violenza e saccheggio dei paesi confinanti con l’Ecuador, della triste e amara storia che continua a perseguitare la Colombia e del pensiero, dapprima latente ma ormai visibile a tutti, di una psico-politica violenta e distruttiva come quella di Maduro.

I colombiani portano con sé la triste storia del loro Paese che negli anni è tristemente stato terra di conquista e saccheggi per tutti, dai narcotrafficanti, alle FARC paramilitari di destra, fino alle forze militari governative e al fantasma vivo di Escobar che hanno cercato più volte di sradicare degrado e violenza con altra violenza, generando ciò che Galeano ha definito “profitti per l’industria della violenza che la vende come spettacolo e la trasforma in un oggetto di consumo”.

I venezuelani, invece, già precipitati nella più grande crisi umanitaria, sono quotidianamente costretti a lasciare il loro paese che lentamente sprofonda nella miseria e povertà. Lasciando spazio alla brama di potere di chi ha trasformato una nazione ricca di bellezza e ricchezza in uno scenario di odio ed abbandono, scappano attraversando il punto più cruciale e di ridefinizione del loro destino: il confine.

Ma cosa separa esattamente un confine?
Dall’ultimo evento che ha scosso la mia esistenza, generando un nuovo senso della vita, rifletto sul significato di questo spazio fisico e immaginario, luogo di tormenti e di salvezza.
Come ben descritto dall’universo sociologico e psicologico, il confine è uno spazio immaginario e sospeso nel tempo, soglia di rinascita o di sofferenza, luogo nel quale memoria e oblio entrano in conflitto e si confrontano. La temuta linea di demarcazione diviene l’asse che separa il passato dal futuro, creando una dimensione tormentata in cui paure e entusiasmo convergono in un abitare forzato.

Per un migrante che attraversa il confine di un paese per dimorare in un altro, ricominciare non è mai facile, soprattutto se solo. Allontanarsi dalla propria famiglia e dalle proprie consuetudini è uno scivoloso abbandono dall’involucro protettivo materno verso un abisso ignoto, vagabondando e perdendo ad ogni passo la propria identità in posti sconosciuti, lontano da ciò che è famigliare, da colori, suoni, ritmi, odori e sensazioni che formano l’essere.
Assaporare il nuovo confine, scandito dal futuro, genera euforia e positività, aspettative che appaiono come sogni, rinascita e generatività.

Il confine, dunque, separa mondi e realtà diverse, spazi temporali che sono memorie e future memorie; separa, spesso per necessità, una madre dal proprio figlio. Ogni confine è governato da forze politiche e da leggi dettate dall’ordine di “entrata e uscita” e da chi non ha mai temuto l’incontro tra passato e futuro, tra la fusione e la confusione di stati emozionali, tra l’abbandono e la perdita. Nonostante le leggi migratorie regnino sovrane sui confini separatori, c’è chi – mosso dall’irrazionalità, dalla follia amorosa e dal ricordo sospeso di un passato vissuto e un futuro non più vivibile – attraversa con determinazione e speranza i confini, sfidando le stesse leggi migratorie per confrontarsi con una nuova realtà, crudele e assassina ma allo stesso tempo necessaria, ricostruendo i mille frammenti famigliari, ormai irricostruibili.

A questo sentimento d’amore non resiste nessuna legge migratoria, non esiste nessun permesso di soggiorno o nessun controllo in frontiera che possa impedire l’avanzare di chi, dopo giorni, teme di incontrare il peggio in un paese sconosciuto, scosso da un uragano di proteste, di falsa burocrazia e da una celata discriminazione verso lo straniero. Questo è, a mio parere, l’aspetto più sublime delle mille facce del coraggio dimostrato dai migranti erranti: l’onda energetica e motivatrice che mobilita un corpo fisico a navigare controcorrente per inseguire ricordi e nuove verità.

Ancora più poetico appare l’amore incondizionato di una madre che nella tormenta attraversa confini e sfida “sciacalle” regole migratorie per abbandonarsi al ricordo e al pianto di un figlio, ormai cenere, in territorio straniero. È dal dolore straziante e dal tessere intrecciato di parole dette e verità nascoste dietro pareti mute ma con occhi, che il coraggio prende forma e energia; diventa fonte vitale di azioni razionali per soffocare dolcemente dolore e tristezza che lacerano lentamente il corpo e la mente.
In questa tesa inquietudine il confine e le leggi politiche perdono quel loro fascino di ordine pubblico per trasformarsi in qualcosa che solo l’essenza materna può comprendere. La perdita di un famigliare migrato dalla propria terra originaria diviene un viaggio introspettivo e psicosomatico al di là di confini e politiche. Vissuti e ricordi si mescolano con ritmi disarmonici al dolore fisiologico generato dal corpo per difendersi da un buco nero interiore.
Da questo preciso istante, dalla confusione della perdita e dalla somatizzazione dei vissuti, tutto prende forma. I ricordi dipingono eventi, parole e avventure. Si narra una storia nella quale non esistono frontiere e culture diverse, non vi è nessuno spazio di separazione ed emarginazione identitaria. Si narra una storia che ci appartiene, fatta di ritmi sonori che sono palpitazioni che accelerano involontariamente.

L’ancoraggio al momento e all’evento della perdita affettiva di un famigliare lontano dalla propria terra genera il perpetuo riproporsi dello stesso in forma di flashback e di riattualizzazioni. Da qui, dunque, prende il via la spirale mortifera della coazione a ripetere e a ricordare, espressione del sopravvento dell’autocolpevolizzazione dell’impotenza umana.
Il presente diviene così cristallizzato, statico e privo della sua evanescenza, riducendosi di fatto ad un’immagine speculare della perdita. In assenza di un presente dinamico, la persona vittima del dolore non è più in grado di figurare un sentimento che si dispieghi verso un futuro potenziale, ma soltanto verso un passato che non può più tornare: un’esperienza del non-senso, un varcare definitivamente il confine che separa il passato dal futuro.
Allo stesso tempo, il ricordo e le rappresentazioni di immagini, parole e racconti culturali sono generatrici, poiché permettono di liberarsi e di gestire l’elaborazione emozionale restituendo in tal modo un nuovo benessere psicologico. Grazie a ciò, il sentimento di auto-colpevolizzazione si trasforma in perdono, un atto di coraggio che consiste nell’accettare gli eventi sfortunati e le limitazioni del proprio essere, liberando corpo e mente dalla persecuzione dei fantasmi di un passato che è stato tristemente accettato.

Ed io, in questo vortice di perdita ed abbandono, sto imparando a vedere la bellezza; quella bellezza che si nasconde spesso sotto il velo, a volte minaccioso, dell’inconsueto e dell’inaspettato; sto imparando a vedere che la diversità è ricchezza e che la ricchezza dipende dalla capacità di gustare la vita molto più che dal separare questa stessa con un confine politico. È questa intensa esperienza che mi permette, qui ed ora, di vivere una vita le cui caratteristiche, gioia e bellezza, non dipendono dall’assenza, dalla perdita o dalla semplicità dei problemi, né dall’opulenza e dall’abbondanza materiale, ma da una fiducia aperta, da una grata consapevolezza del mio esistere, oltre ed attraverso il male che è in me e intorno a me.
Questo mi ha dato l’occasione di notare come le culture e le comunità più svantaggiate, costrette a migrare, vessate ed emarginate dalle logiche inumane del pensiero psico-politico, sognano ad occhi aperti porte spalancate come fossero linee immaginarie da attraversare con coraggio per sprofondare dapprima nell’abisso e poi rinascere dallo stesso.

Non esistono limiti né confini, né barriere né politiche che possano frenare atti coraggiosi e degni di umanità.
La parola pace, che in questi giorni di tensione è tornata a bussare al portone nazionale, non rappresenta solo il respiro di sollievo di chi da sempre lotta contro le ingiustizie sociali e le disuguaglianze, ma simboleggia anche la legge interiore di chi, dopo una perdita, ha perdonato se stesso e risanato un equilibrio interiore.

Questa mia riflessione in bianco e nero ma dalle mille sfumature impercettibili la dedico a te, amico fragile.
Senza preavviso sei lentamente evaporato nelle nuvole maestose che sovrastano il cielo di Quito.

Tu, migrante venezuelano, hai attraversato con la tua fantasia le frontiere per ri-disegnarle come se fossero ponti tra la tua terra e la nuova terra.
Tu, figlio migrante, hai dato speranza e dolore alla tua lontana famiglia.
Tu, migrante coraggioso, sei riuscito ad affrontare l’alterità per immergerti in una nuova identità, consapevole dei tuoi limiti e delle tue debolezze.
Tu, non migrante, hai regalato sorrisi e dolcezza a chi ne aveva bisogno.
Tu, non migrante, sarai per sempre un migrante che nel silenzio rumoroso si è lasciato abbandonare fino a diventare una perdita in una terra che è diventata la tua e la mia casa.

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