Ritrovarmi dall’altra parte del mondo è sempre stato il mio sogno ed ora che si è realizzato, non posso che guardarmi attorno con meraviglia. Paesaggi che prima potevo ammirare solo attraverso uno schermo, adesso mi circondano. Natura coloratissima e maestosa, anche se talvolta intrappolata dal volere dell’uomo, che come indole sente il bisogno di conquista, ordine e civiltà. Le montagne qui sono diverse dall’Italia: verdi, morbide, ricoperte da una flora tropicale che non avevo mai visto. Il mare, però, è ciò che forse più mi affascina. Nata e cresciuta nella provincia milanese, ho sempre trovato l’acqua un elemento affascinante. Qui a Roxas City la presenza così diffusa di spiagge e isole è, personalmente, commovente. L’acqua rappresenta per me un ostacolo insormontabile e una forza “solida” ma anche simbolo di mistero e vita, e avere finalmente l’opportunità di ammirare l’oceano mi fa sentire piccola ma allo stesso tempo parte di un ciclo perfetto.
Una delle esperienze che sicuramente mi ha colpita di più è stata la prima visita all’isola di Olotayan. Il nome, come mi è stato spiegato, deriva da una leggenda secondo la quale sull’isola viveva un gigante crudele che tormentava gli abitanti. Questi chiesero aiuto agli dei, che lo colpirono con un fulmine dividendogli il corpo a metà: “olo” (testa) e “tyan” (stomaco). Si dice che i suoi resti fluttuino ancora dagli alberi fino alla costa, spaventando i cittadini per cercare vendetta.
Per arrivare sull’isola mi sono diretta verso il molo di Banica la mattina del 6 luglio, con due colleghe filippine e Marco, il mio compagno di servizio. Qui siamo stati indirizzati verso una bangka, piccola imbarcazione tipica costruita solitamente in plastica e dotata di motore e doppio bilanciere in bamboo, utilizzato per potersi spostare da un’isola all’altra con maggiore equilibrio e sicurezza. Ho seguito attentamente le istruzioni delle colleghe per salirci, per evitare di cadere e farmi male. Il mare era calmo, il cielo non dava segni di pioggia. Ero pronta a lasciarmi andare e provare qualcosa di completamente nuovo. Con il motore acceso era praticamente impossibile parlarsi ma questo ha creato in me una sensazione di pace: avrei potuto concentrarmi solamente su ciò che stava accadendo e ciò che vedevo. L’inizio della navigazione, mentre la barca si faceva strada per allontanarsi dal molo, è stato un momento perfetto per abituarsi a questa nuova condizione di viaggio. Poi, ad un tratto, il mare aperto. L’isola non dista molto dalla costa, ma abbastanza per accorgersi di essere in mare aperto, intimidatorio e maestoso allo stesso tempo. La bellezza del paesaggio mi ha resa immobile per qualche istante. L’immensa distesa d’acqua incontrava il cielo, dipinto da alcuni sbuffi di nuvole soffici. A volte mi giravo verso il pilota e le due ragazze e sempre più realizzavo l’importanza, durante quest’anno che mi aspetta, di affidarmi a persone che non conosco, che hanno una vita e una cultura molto diversa dalla mia ma di cui è bello anche ritrovare affinità. Per le mie colleghe questo spostamento poteva essere un’esperienza potenzialmente “mondana”, invece per me si stava rivelando nuovo, piacevole, affascinante. Dopo un po’ ho notato che quest’ultime si stavano rigorosamente proteggendo dal sole. Ho capito che, come ovunque d’altronde, gli standard di bellezza sono molto diversi. In questo paese tropicale, l’ideale di bello è rappresentato da una pelle chiara, nonostante la carnagione dei locals sia tipicamente più scura rispetto all’obiettivo estetico desiderato. La crema solare è tutta importata, quindi ha un costo elevato e, non essendo un bene primario, viene acquistata da quasi nessuno. Durante le uscite tra amici infatti è insolito andare in spiaggia, proprio perché si cerca di evitare la luce solare. Dopo essere arrivati finalmente sull’isola, però, una delle due ragazze ci ha voluto mostrare una spiaggia bianca bagnata da acque cristalline, forse perché sapeva quanto per noi fosse incantevole il mare. È anche grazie a lei e le altre colleghe che sto imparando a comprendere ed accogliere tutte queste differenze culturali, a cui solitamente non si fa caso fino a quando si inizia a vivere l’esperienza di un Paese più da cittadino che da turista. Ho ancora molto da imparare e non vedo l’ora.
Malgrado la sua bellezza e vicinanza alla città, Olotayan non è una meta turistica famosa e questo ha permesso all’isola di rimanere autentica e rurale. Alcune donne della comunità, formata da poco più di mille abitanti, ci hanno accolto in modo caloroso e gentile. Nessuno ci ha mai trattati come sconosciuti o di troppo, anzi. Gli abitanti sono persone modeste e perlopiù pescatori, infatti la dieta è composta principalmente da riso e pesce. I bambini giocano sulla spiaggia con ciò che trovano e si vive condividendo molto più rispetto a dove ho sempre abitato. Alcuni ragazzi delle scuole superiori, timidamente, si sono presentati a noi in inglese, alcuni volenterosi di mettersi in gioco, alcuni forzati dall’insegnante. Ma tutti poi ci regalavano un sorriso generoso, fieri di aver scambiato qualche parola in una lingua internazionale. Dopo questo bel momento abbiamo pranzato con fr. Philip Andrada, appena assegnato alla parrocchia, mentre ci raccontava un po’ dell’isola.
Mi sento davvero fortunata a poter essere qui. Non ho molto da dare, se non me stessa, la mia sincera volontà di incontrare altre persone, di accostare la loro cultura, le tradizioni locali, rispettandone la semplicità e ricchezza e cercando di apprendere ciò che posso. Sto già gustando ogni giorno l’opportunità di interagire con persone che mai avrei incontrato, e talvolta poter rendere felice qualcuno solo pronunciando una parola nella sua lingua natia. Comprendo che ogni giorno c’è qualcosa di inaspettato da imparare.
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