Caschi Bianchi Cile

Perdere il feyentún

La lotta per preservare l’identità mapuche nelle carceri cilene

Scritto da Giuseppe Santaguida, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 a Valdivia

L’uomo in divisa verde e nera è un agente della Gendarmeria de Chile. Apre la porta di ferro del carcere di Temuco con un mazzo di carte di identità in mano. Inizia a scandire i nomi di familiari e amici giunti a incontrare i detenuti. Sono le 13:40, l’orario delle visite è scoccato da poco e questo è solo il primo di una lunga serie di appelli. Ad avere la precedenza saranno quelli che hanno consegnato i documenti la mattina, prima delle 11:00. Tra questi fortunati ci dovremmo essere anche io e Jacopo, un altro volontario che è con me, ma i nostri passaporti stranieri sono stati messi in coda all’innumerevole serie di carte di identità nazionali. Dovremo aspettare le prossime due chiamate. Siamo qui per incontrare dei prigionieri di origine mapuche, lo scopo è raccogliere delle testimonianze e informarci sulla situazione carceraria, ma il tramite per farlo come osservatori dei diritti umani è troppo lungo, quindi i familiari ci hanno ceduto un po’ del loro tempo per poter fare la visita.

Mi guardo attorno: distinti sprazzi di umanità si stringono sul marciapiede, tra le mura del carcere e la strada. Una tettoia verde in metallo protegge dalla pioggia in inverno e dal sole in estate, ma non riesce ad ospitare tutti. Hanno le facce stanche e avvilite, i loro occhi riflettono i segni dell’attesa. Spesso le loro braccia conserte si sciolgono per rivolgere una domanda agli agenti, una lamentela, un insulto in cileno.

La trafila per poter incontrare una persona cara in carcere inizia molto prima del giorno della visita. Un cammino irto di ostacoli e possibili disavventure. Occorre prima registrarsi per poter effettivamente visitare il prigioniero. La procedura può essere svolta in qualsiasi carcere del Paese. Qui a Temuco può essere espletata tutte le mattine fino alle 12:00, ma solitamente verso le 11:30 un gendarme esce fuori in strada a raccogliere i documenti di chi è in attesa. Da quel momento, chiunque sopraggiunga non sarebbe accettato, con l’invito di ripresentarsi il giorno dopo. Ciò significa che molte persone non si possono inscrivere anche se non sono giunte in ritardo e l’orario di chiusura non è ancora arrivato.

Una volta registrati si ha la possibilità di recarsi a visitare il detenuto. Tuttavia, nonostante l’orario di visita sia solitamente di pomeriggio, dalle 13:30 alle 16:00, il personale di Gendarmeria consiglia di recarsi di fronte al carcere la mattina, prima delle 11:00, per consegnare il proprio documento di identità, in modo tale da essere chiamati per primi. Sempre in questa fascia oraria la persona interessata può portare con sé il cibo che intende far entrare dentro l’istituto, in modo tale che sia anch’esso ispezionato in anticipo. Questo fa in modo che davanti al carcere si creino file di persone fin dal mattino, non senza generare confusione e dissidi tra i presenti.

Il gendarme esce per il terzo turno, questa volta io e Jacopo notiamo che ha anche due passaporti in mano. Sono nostri. Come molti da queste parti, l’agente ha difficoltà a pronunciare il mio nome. Alzo la mano mentre tenta di emettere il suono giusto. Il mio compagno mi segue. Superato il cancello ci ritroviamo in un cortile in cemento. Alla nostra destra, la vetrina dell’ufficio a cui consegnare i documenti per l’identificazione, davanti a noi un tavolo su cui posare il cibo da ispezionare, al di là di esso la stanza per i controlli al metal detector. La fila si dispone come una serpentina intorno al tavolo, la gente avanza lentamente. Oggi sembra che il macchinario per l’ispezione finale non funzioni bene. Sono le 14:30, significa che i presenti hanno già a disposizione un’ora in meno di visita. Una bambina gioca con un tappo di bottiglia sotto il tavolo, la mamma la richiama. Mentre avanziamo lentamente, lo stesso agente di prima esce per chiamare chi è ancora in attesa all’esterno del carcere. Vediamo entrare Fabrizio, il nostro responsabile, che non ha avuto il tempo di consegnare il suo documento in mattinata. Sembra che anche lui riuscirà ad effettuare la visita.

I muri intorno sono tappezzati da cartelli e infografiche su ciò che non è consentito portare all’interno dell’istituto. I divieti riguardano diverse tipologie di cibo e bevande. Ovviamente, tutto dev’essere confezionato. Gli agenti si occupano di aprire le confezioni ed effettuare un controllo visivo e olfattivo dei prodotti. Oltre alle bevande alcoliche e alla birra analcolica, non si possono portare succhi e bevande non trasparenti, nonché liquidi in contenitori di vetro o tetrapak. Nel caso di latte o succhi di frutta in tetrapak, la Gendarmeria consiglia di portare con se una bottiglia di plastica per effettuare un travaso davanti agli agenti. È consentito l’ingresso di confezioni di erba mate, ma questa dev’essere elaborata senza “palo”, ovvero i sacchetti devono contenere solo le foglie. La sequela di informazioni continua per quasi tutto il perimetro del cortile. Gli agenti ispezionano i prodotti con un’attenzione diversa in base a ciò che si trovano davanti, le bevande vengono aperte e annusate, le patatine in busta vengono riversate all’interno di un piatto, il resto del cibo viene ispezionato con più cura.

Sono le 15:00 quando riusciamo a superare l’ultimo tipo di controllo, il passaggio all’interno del metal detector. Abbiamo un’ora per effettuare la visita, anche se preferiremmo finire prima per lasciare più spazio ai familiari. La sala dei controlli e la sala in cui si effettuano le visite sono collegate da un corridoio stretto e angusto che porta ad un’altra serie di cancelli che devono essere aperti da chi sta di guardia. Io e Jacopo andiamo a destra, Fabrizio a sinistra, la persona che deve visitare è reclusa in un altro modulo. Superato l’ultimo cancello, entriamo all’interno di un grande spazio adibito a palestra. Detenuti e persone in visita possono sedersi intorno ai tavoli posti in mezzo alla sala, ma alcuni preferiscono parlare sugli spalti.

Le due persone da incontrare sono fortunatamente sedute allo stesso tavolo. Stanno conversando con le mogli. Ci avviciniamo e salutiamo tutti. Sono un longko (capo) e un werken (portavoce), autorità tradizionali della loro comunità, in carcere per reato di estorsione, dopo un processo con non poche circostanze non chiarite. Dopo le presentazioni, chiediamo come stanno e come si trovano all’interno dell’istituto penitenziario. Il longko inizia subito a parlare, sembra contento di vedere qualcuno giunto dall’esterno per informarsi delle loro condizioni. Dice di sentirsi bene, è convinto del fatto di essere finito in prigione solo perché stava tentando di migliorare la vita dei membri della sua comunità, si dice pronto a continuare la lotta. Porta dentro di sé un senso di inevitabilità della prigionia, un sentimento che accomuna quasi tutti i prigionieri mapuche visitati finora: l’idea che, una volta intrapresa la strada della rivendicazione culturale e territoriale, finire in carcere è quasi una tappa obbligata.

Ci racconta che negli ultimi mesi i detenuti del carcere di Temuco hanno dovuto fare i conti con un’infestazione di cimici dei letti. Hanno chiesto molte volte alla direzione di effettuare una disinfestazione o, in alternativa, di permettere alle famiglie di far entrare dei prodotti appositi, cosa che solitamente non è consentita. Anche l’INDH (Instituto Nacional de Derechos Humanos) si è occupato dell’argomento e sembra che una disinfestazione sia stata fatta, ma che le cimici non siano ancora state debellate. Inoltre, le famiglie ora possono consegnare i prodotti antiparassitari, su apposita richiesta del detenuto e solo dopo aver ottenuto il permesso dalla direzione. Tuttavia, loro stanno ancora aspettando i prodotti consegnati dai propri familiari, non hanno idea di quando li riceveranno, sembra che siano andati perduti.

Per il resto, il longko afferma che non è un problema per lui dormire in una cella. Ci racconta di quando da giovane andava a lavorare al nord come bracciante e passare la notte su un letto vero era un’eccezione. Si concentra però sui diritti culturali all’interno del carcere. Ci tiene a sottolineare come lo Stato abbia un comportamento discriminatorio nei confronti dei detenuti di origine mapuche. A suo parere, le regole che reggono il sistema penitenziario, la disposizione delle celle e la struttura generale delle carceri cilene non sono pensate per le persone appartenenti al popolo nativo. Le incompatibilità sono ancora più acuite se, come loro, si vive al di fuori del modulo destinato ai “comuneros mapuche”, nato perlopiù per ospitare persone accusate di reati di matrice politica. Questo tipo di modulo dovrebbe teoricamente consentire ai detenuti di scontare la pena nel rispetto delle proprie tradizioni, spiritualità e cultura, secondo quanto stabilito dalla Convenzione ILO 169. Nei fatti, però, ci sono diverse mancanze all’interno del modulo mapuche, senza contare che i pochi diritti riconosciuti sono stati raggiunti attraverso lunghe proteste e scioperi della fame. Tuttavia, quando chiedo espressamente se vorrebbero essere trasferiti nel modulo mapuche, il longko risponde negativamente scuotendo la testa. Con decisione asserisce che è esattamente questo il punto: i diritti culturali dovrebbero essere garantiti e rispettati all’interno di qualsiasi tipo di modulo carcerario, in qualsiasi carcere del Paese.

In questi mesi di visite ci è capitato spesso di ascoltare una richiesta che si leva dalle varie carceri cilene. Come molti prigionieri mapuche, anche il longko e il werken ci dicono che esiste una modalità di scontare la pena molto più vicina al modo di vivere mapuche: il trasferimento in un CET (Centro de Educación y Trabajo), un centro fuori dal carcere in cui i detenuti possono terminare la propria condanna lavorando e in cui viene data la possibilità di lavorare la terra.

Il rapporto con mapu, la terra, è viscerale nella cultura e nella spiritualità mapuche. Le cerimonie dovrebbero essere svolte all’aperto, la mattina presto, e i piedi dovrebbero stare a contatto diretto con la nuda terra. Tutto ciò è inconciliabile con gli orari di lavoro del personale del carcere e con gli spazi messi a disposizione. Per ora, infatti, i rituali si sono svolti all’interno della palestra. Sia il longko che il werken si stanno battendo fermamente affinché possano svolgere le cerimonie sulla terra della loro comunità ma, allo stesso tempo, riconoscono che questo è un obiettivo ambizioso. Per questo motivo, chiedono anche l’individuazione, all’interno del perimetro del carcere, di uno spazio all’aperto. Uno spazio dotato di “pertinencia cultural”, ossia più adeguato alle esigenze, alle credenze e alle usanze del popolo mapuche.

Nei giorni scorsi hanno cercato di contattare l’INDH, senza ancora ricevere risposta, perché la direzione del carcere vieta l’ingresso degli strumenti musicali tradizionali necessari per celebrare i riti. Questa, ci dice, è una delle discriminazioni più lampanti, perché i credenti della religione cristiana, cattolici ma soprattutto evangelici, possono praticare liberamente il proprio credo e hanno a disposizione tutti gli strumenti che vogliono per intonare i loro canti e le loro preghiere.

Il longko si dice preoccupato per quello che sta vivendo. Cerca più volte di farci capire che la preoccupazione per i diritti culturali in carcere non è semplicemente un capriccio. Una volta privato dei rapporti con la propria comunità, resi sempre più difficili dalle procedure carcerarie, alienato dalla propria cultura, dal proprio modo di vivere e, infine, privato del contatto con madre terra, un mapuche rischia di perdere il proprio feyentún”. Il feyentún è un sistema di valori, credenze spirituali e azioni che collegano lo sviluppo della vita quotidiana con la cosmovisione mapuche. Senza la possibilità di sviluppare e coltivare il feyentún, il mapuche smette di vivere come mapuche, la sua vita viene privata di significato e la prigionia del corpo si trasforma in prigionia dello spirito. Potranno anche rilasciarlo un giorno. Ma a cosa serve essere libero se ovunque si è in catene?

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