Fra tutti i posti che ho frequentato nel mio anno di servizio civile in Romania, quello che mi è rimasto più a cuore è stato Ferentari. È il peggior quartiere di Bucarest, il “ghetto” dove rimangono intrappolate tantissime persone, quasi tutti rom, la maggior parte tossicodipendenti e molti bambini, figli di persone spesso insufficienti a sé stesse.
La prima volta che sono andato a Ferentari me la ricordo bene, stavamo andando al programma per bambini delle Suore Missionarie della Carità dove avrei avuto il compito di proporre giochi, attività, laboratori. Entrando dal cancello ci aspettavano pochi bimbi, che erano lì più per la curiosità di vedere il nuovo italiano appena arrivato che per farsi coinvolgere dalle attività. Prima del mio arrivo c’erano stati tanti cambi fra cui la partenza dei due Caschi Bianchi dell’anno prima, tornati in Italia da poco e a cui tutti avevano voluto molto bene. Avrei dovuto occupare il loro posto e, siccome io non ero quei due ragazzi, le aspettative erano irraggiungibili. Infatti, la maggior parte di loro lì per lì non fu contenta di me, un ragazzo non è più venuto durante l’anno.
Ho capito solo dopo il senso della delusione di quei bambini, che a me, lì per lì, mi lasciò un po’ offeso. Io, semplicemente, non ero i due Caschi che erano appena andati via e, per i ragazzi di Ferentari, lo spazio della vicinanza, dell’intimità, è uno spazio in cui le ferite mai rimarginate infettano anche tutto il resto. La maggior parte di loro vive nella propria quotidianità dei drammi che io non saprei come reggere se anche solo mi capitassero una volta nella vita, mentre per loro è la quotidianità, la normalità delle cose. Molti sono figli di tossicodipendenti, molti hanno perso un genitore, alcuni anche tutti e due, c’è chi ha un genitore in carcere, chi l’ha visto scappare con un altro uomo o un’altra donna, chi non li ha mai conosciuti. Gli appartamenti in cui si vive a Ferentari sono camere di pochi metri quadri, molto spesso sudicie, all’interno di condomini in cui i pavimenti sono ricoperti di siringhe e alle scale manca il corrimano fino al secondo piano.
La strada da cui vengono alcuni dei bambini che frequentano il programma delle suore è aleea Livezilor – ironia vuole che la traduzione sia “vicolo del frutteto” – che è ben conosciuta in tutta la Romania. Ma, più che rassicuranti alberi da frutto, in aleea si incontrano persone che zoppicano per gli ascessi dovuti alle punture delle siringhe e ragazzi che a malapena si reggono in piedi, sotto l’effetto di eroina o metanfetamine. Accanto a loro, i bambini giocano al gioco dell’elastico, a calcio, cantano e ridono e, d’estate, qualcuno gonfia anche qualche piscinetta gonfiabile riempita poi d’acqua e usata da chiunque voglia.
Ora mi è molto chiaro il motivo per cui quei bambini non mi hanno concesso quello spazio di vicinanza che speravo di conquistare al primo colpo con tutti i giochi, i balli e le attività che conoscevo. Quello spazio era estremamente ferito e, al tempo stesso, preziosissimo e quindi ricoperto di un’armatura talmente spessa da doversi difendere da me, che ero l’ennesimo “attentatore” che non sarebbe rimasto, che avrebbe forse riaperto ferite affettive che poi non avrebbe curato e rimarginato. Confesso che forse in fondo avevano ragione, perché poi è vero, sono tornato in Italia, anche se ogni tanto vado a trovarli. Però, poi ci siamo voluti un bene così profondo che ha scardinato tutti i miei parametri relazionali.
I ragazzini di Ferentari mi hanno insegnato due cose: quanto in Romania il disagio sia il normale corso delle cose per tante persone e quanto invece, in quelle situazioni, il bene possa essere banale.
Tutti loro incarnano, con le loro quotidianità, la lontananza delle istituzioni, che da quelle strade si mantengono chirurgicamente lontane. L’unica presenza statale nel quartiere è quella delle forze dell’ordine, mai assente dalla via, ma che mostra come prevalga la soppressione del disagio, invece che un impegno al cambiamento. I bambini vivono sulla propria pelle la violenza razzista anche degli insegnanti nei loro confronti, il disagio e la violenza nelle loro famiglie e una quotidianità in cui la droga è sempre presente, anche se non è assunta da nessuno dei membri della famiglia. La solitudine e la violenza in cui vivono, ai loro occhi non sono “storture” ma il normale corso delle cose.
Ogni attimo di gioia o di bene, in realtà inaspettatamente frequentissimi, un qualcosa di speciale. Gli abbracci, i giochi insieme, le risate o i legami che, con qualcuno di loro, sono andati più nel profondo, hanno un sapore speciale. Hanno il gusto di una conquista raggiunta insieme, camminando accanto, scoprendosi e corrompendosi un po’, che per me ha significato parlare della mia vita, imparare qualche parola di romanì e dire di fronte a loro qualche parolaccia, di nascosto dalle suore. Un percorso in cui nessuno perde, nessuno rischia e tutti ne siamo usciti cambiati. Ma non perché effettivamente la mia presenza lì, così come penso quella degli altri Caschi che mi hanno preceduto, abbia portato ad una svolta nelle loro vite. Ma perché, per loro, ha significato la scoperta di valere qualcosa in più rispetto a ciò che la loro quotidianità gli mostra. Il periodo di servizio civile, per me, ha significato la costruzione nonviolenta di una società della pace, proprio perché ha permesso a questi bambini di sentirsi un po’ meno soli, meno abbandonati, o almeno, voluti bene da qualcuno che li pensa spesso.
Ho scoperto che “compromettermi” donandomi con leggerezza, amandoli teneramente, facendogli stravolgere la mia vita, ha creato, sicuramente per me (e spero anche per loro) un futuro nuovo. Il mio coinvolgimento mi ha mostrato di poter essere terreno fertile per le vite di chi incontro, di poter diventare una persona che ricordi l’ombra di un albero nei giorni di agosto. Il servizio civile mi ha un po’ salvato la vita, perché mi ha dato la prova che sono un attore importante della mia vita, per questo mondo e che ciò che posso dare io, non lo darà nessun altro per me.
Un gioco e un ballo alla volta.
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