Sabato 9 dicembre
È mezzogiorno di un sabato tranquillo quando ci chiama J, una ragazza di 21 anni congolese che vive all’interno del campo di Ritsona, e gridando ci dice che è scoppiato un incendio all’interno del campo. Quando arriviamo sul posto, vediamo il camion dei pompieri entrare dal cancello principale. Parliamo con il personale della sicurezza del campo che, con ostilità, ci dice che ormai le fiamme sono state domate, nessuno è ferito e stanno tutti bene.
J esce dal campo, a noi interdetto, e ci racconta che sono andati a fuoco sei container e molte famiglie sono rimaste senza niente, alcuni hanno perso addirittura i documenti. Dopo averle offerto una tazza di tè caldo le abbiamo chiesto se per lei fosse possibile chiedere alle persone che hanno perso tutto di uscire dal campo. Con forza e lucidità J rientra nel campo e dopo 20 minuti esce accompagnata da una donna con un bambino molto piccolo in braccio, un’altra donna sola e tre uomini. Sono tutti della comunità africana ma ci riferiscono che vittime dell’incendio sono anche delle famiglie siriane. J ci dice che ha provato a parlarci ma la barriera linguistica ha reso l’incontro difficile.
Ci raccontano che i container ormai in cenere sono quelli vecchi, che da tempo non vengono controllati, e in cui vivono più persone di quelle previste. Questo tipo di incidenti, spesso legati a problemi di elettricità e dei sistemi di riscaldamento interni ai container, avvengono con frequenza nei campi profughi. Nonostante ciò, sembra non esistere un sistema di prevenzione e gestione di queste emergenze. Il direttore del campo, che si è presentato sul luogo immediatamente, ha comunicato che non avrebbe fornito una soluzione logistica fino al lunedì alle famiglie colpite, le quali avrebbero dovuto trovare rifugio per le notti successive presso altri container già molto affollati. La preoccupazione di dover passare la notte fuori al freddo nella speranza di cercare solidarietà da altri, si è così aggiunta alla già forte sensazione di perdita e disperazione.
I volontari, nel contesto di emergenza, hanno ascoltato il racconto dell’accaduto e deciso di aiutare le persone conosciute donando loro alcuni maglioni e vestiti pesanti che avevano portato da casa. Essendo l’unica organizzazione presente sul posto in quel momento è risultato necessario fornire provviste per i giorni seguenti.
Le emozioni che trasmettevano gli sguardi dei ragazzi e delle ragazze incontrati sono indescrivibili. Dolore, rassegnazione, stanchezza, disperazione ma anche gratitudine. Ancora prima di avergli donato i vestiti e il cibo, già ci ringraziavano solo per il fatto di essere lì. Il vero dolore che abbiamo provato nell’incrociare quegli sguardi deriva dal fatto che quell’incidente è conseguenza di un sistema razzista di “accoglienza” e di gestione della migrazione da parte dei paesi dell’Unione Europea, il quale viene finanziato con le nostre tasse.
L’indifferenza ci rende complici e l’ignoranza finanziatori di questo sistema.
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