Caschi Bianchi Cile

Il Cile è stato e continua ad essere un laboratorio politico

4 anni dopo la protesta di massa, le speranze disattese dei manifestanti

Scritto da Emanuele Russo Fiorillo, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 a Valdivia

Il Cile è uno dei paesi più ricchi dell’America Latina, a cui in passato ci si riferiva parlando di “miracolo cileno”, ma è anche uno dei paesi con le maggiori diseguaglianze sociali tra i 36 membri dell’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Nell’ottobre del 2019 il Paese è stato segnato da forti proteste antigovernative, partite per via dell’aumento dei prezzi della metro di Santiago, ma soprattutto causate da una sfiducia nella classe politica e dalle profonde disuguaglianze economiche e sociali nel paese, sfociate poi nella richiesta di una nuova Costituzione. Dopo quattro anni, oggi il bilancio è di due processi costituzionali, una prima bozza rifiutata e una seconda da votare tra poco ma soprattutto molta confusione e molte speranze disattese.

Nel 2019 l’aumento del biglietto di soli 30 pesos (pochi centesimi di euro) nelle fasce orarie di punta generò forti indignazioni e la prima evasión (salto dei tornelli) che, coordinata inizialmente da alcuni studenti, trovò nei giorni successivi sempre più appoggio fra gli studenti di altri istituti e nel resto della popolazione e si trasformò da manifestazione pacifica a guerriglia: distruzione di tornelli, intervento delle forze dell’ordine, scontri, feriti e arresti, numerose stazioni di Santiago, sia del centro che della periferia, completamente bloccate. Gli scontri si sono caratterizzati da un uso sempre maggiore di violenza, con l’utilizzo anche di bombe lacrimogene e fucili anti-sommossa. La situazione è poi degenerata: incendi e barricate sono stati la pronta risposta della popolazione.

Data che rimarrà storica per il cammino democratico cileno è quella di venerdì 25 ottobre 2019. Manifestazioni pacifiche sparse per tutto il paese, più di 1,2 milioni di cileni invadono Santiago a partire da Plaza Italia, punto nevralgico delle proteste, per questo ribattezzata “Plaza de la Dignidad”. Quella che da subito è stata considerata “la marcha más grande de Chile” è stata l’espressione di una partecipazione politica trasversale: diverse età, estrazioni sociali e obiettivi convogliano una rabbiosa e orgogliosa richiesta di una nuova carta democratica che possa segnare una reale discontinuità con l’attuale, in vigore dal 1980 e voluta dal dittatore militare Augusto Pinochet, che nonostante decine di emendamenti fatti nel corso degli anni, ha ancora un impianto decisamente conservatore. La Costituzione del 1980, infatti, è considerata da molti la causa delle forti diseguaglianze del paese e identifica un “modello cileno” in cui la maggior parte della popolazione ormai non crede e non si riconosce più.

“Modello” è il termine più adeguato per rendere l’idea di come sia stato sempre identificato il Cile anche per il resto dell’America Latina. Un Paese ricco, solido, sviluppato. Un Paese in totale controtendenza con la visione che noi europei abbiamo di un Paese sudamericano: no populismi e, fino ai primi anni del duemila, niente proteste, un Paese in cui – a partire dall’ascesa della democrazia nel post-dittatura nel 1990 con la coalizione di centro-sinistra Concertación de Partidos por la Democracia – lo scenario partitico è rimasto praticamente invariato fino a pochi anni fa. Un Paese che, a maggior ragione in contrapposizione al contesto sociale sudamericano in cui si trova, ha continuamente alimentato una retorica nazionalistica e patriottica fondata proprio sul “miracolo cileno”.

Questo modello è applicato in Cile dal 1975, pochi anni dopo l’inizio della dittatura militare. Potendo contare sull’assenza di resistenze popolari in una delle dittature più repressive del mondo, il Cile avviò la restaurazione del proprio apparato socioeconomico affidandosi a un gruppo di giovani economisti cileni, studenti dell’Università di Chicago, centro nevralgico del pensiero liberista e liberale statunitense. Il Cile diviene così un “laboratorio politico” per le tesi e le sperimentazioni dei Chicago Boys. La totale fiducia con cui il regime militare riveste il gruppo di economisti ha creato una particolarissima combinazione, difficilmente riscontrabile in altre dittature, di tecnocrazia e autoritarismo: un sistema oppressivo creato tramite esecuzioni, torture, esili, sparizioni come il fenomeno dei  desaparecidos che invece in campo economico ha lasciato carta bianca ad una squadra di giovani accademici cileni, sostenitori di un pensiero in totale contrapposizione con una centralizzazione statale: il modello neoliberista. Il modello socioeconomico cileno viene volgarmente definito “teoria del chorreo” : il chorreo è la perdita di liquido, il gocciolamento, e identifica con un’accurata metafora la deriva negativa e il rovescio della medaglia della visione liberista per cui la crescita economica di pochi contribuisce al benessere di tutti; in cima alla piramide i più ricchi si arricchiscono ulteriormente mentre qualche goccia arriva anche al popolo. Le “goccioline” hanno fatto sì che tutti stessero meglio, che il Cile divenisse membro dell’OCSE e che la povertà diminuisse dal 30% del 1990 al 6,7% del 2018, alimentando ulteriormente la retorica del “miracolo cileno”. Ma la visione del Cile come modello di sviluppo è un’illusione: il rovescio della medaglia è una sempre più visibile suddivisione della società in caste create dai campi del lavoro (mobilità e ascesa lavorativa scarsa), della sanità (chi non si può permettere il caro ma efficiente ospedale privato finisce nell’economico ma inefficiente ospedale pubblico) e dell’educazione in cui chi non può permettersi per i figli una scuola privata o semi-privata, ha solo l’alternativa dell’inefficiente servizio pubblico da cui poi, al di là dei meriti dei singoli, non sarà possibile accedere ad alcune università. Insomma, se da una parte il messaggio che passa è quella di un’assoluta libertà dei cileni di rivolgersi al sistema pubblico o privato, in realtà, il costante aumento delle disuguaglianze socioeconomiche oltre a un indebitamento privato che tocca circa il 70% della popolazione sono la leva nascosta che sorregge l’intero sistema.

Solo nel recente 2019, dopo trent’anni, si è riusciti a mettere in atto un processo per creare una nuova Costituzione, ma il Paese l’ha rifiutata. La sensazione, anche semplicemente ascoltando le percezioni di partecipanti, sostenitori o simpatizzanti delle proteste del 2019, è che sull’onda dell’entusiasmo e del fermento creato dalle manifestazioni, l’Assemblea Costituente abbia redatto un testo troppo ambizioso e progressista, per un paese ancora molto conservatore, al di là delle proteste degli ultimi anni. Il suo contenuto è stato ritenuto da molti divisivo, complesso e disordinato e ha alimentato, di conseguenza, molta disinformazione. Il testo sarebbe stato una delle Costituzioni più femministe al mondo e poneva in primo piano un’attenzione particolare ai diritti sociali che avevano rappresentato la ragione scatenante del movimento sociale del 2019, quelli delle donne, dei popoli indigeni, dell’ambiente e della natura. I critici sostenevano che fossero troppe cose tutte insieme, e che principi generali inattaccabili non fossero affiancati a dettagli sulla loro applicazione reale.

Pochi mesi dopo il rifiuto, nel dicembre del 2022, un accordo tra partiti ha dato il via a un nuovo processo costituente, completamente differente al primo. Il primo processo ha visto la partecipazione attiva di candidati indipendenti e della società civile nella scrittura del testo. Il nuovo consiglio costituzionale è invece formato solo da esponenti dei principali partiti politici e non c’è stato molto spazio per la partecipazione della cittadinanza, se non nel momento di eleggere i rappresentati al Consiglio. L’elezione si è svolta il 7 maggio 2023 e ha segnato il trionfo del Partito repubblicano, partito ultraconservatore di estrema destra, che ha quindi guidato il processo costituente. I lavori sono iniziati il 7 giugno 2023, l’assemblea ha 51 seggi: 23 sono occupati dal PR, undici dai restanti partiti della coalizione di destra, uno soltanto da un rappresentante del popolo indigeno Mapuche e sedici dalla coalizione di sinistra, che non ha potuto esercitare alcun veto. L’assemblea costituzionale ha già inviato al Presidente Boric un testo finale che verrà sottoposto a referendum il prossimo 17 dicembre. La nuova proposta costituzionale fa discutere soprattutto perché non assicura nessun cambio di rotta per quanto riguarda un forte stato sociale e quindi intervento, sostegno e sussidi statali nella salute, educazione e campo delle pensioni. Inoltre a far discutere è un inciso – “la legge protegge la vita di chi sta per nascere” – che marcherebbe una continuità con l’attuale legge che prevede l’aborto in tre casi: pericolo di vita della madre, malformazioni del feto e stupro. Al momento i primi sondaggi vedono molto probabile un nuovo rifiuto. Se i sondaggi saranno confermati, sarebbe la seconda bozza di Costituzione respinta in due anni, e sarebbe una buona dimostrazione dell’estrema polarizzazione che sta vivendo in questi anni la politica e la società cilena.

 

Un processo costituzionale in corso, guidato dall’estrema destra, mentre è a capo del paese il governo schierato più a sinistra dal post-dittatura è quindi un paradosso che ha messo il governo in una posizione difficile. Boric è stato eletto cavalcando l’onda delle proteste e ha legato molta della sua legittimità al processo costituente. Oggi governa senza avere la maggioranza in nessuna delle due camere del parlamento, è costretto a scendere a compromessi con altri partiti e ha visto sfumare molte delle riforme previste nel suo programma. In vista del 17 dicembre, l’unica certezza è che il Cile è stato e continua ad essere un esperimento in corso dal punto di vista politico. I movimenti sociali in primo piano durante le manifestazioni del 2019 – a distanza di quattro anni – hanno visto le proprie speranze disattese e la debolezza del governo come un tradimento.

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