Caschi Bianchi Sierra Leone

E’ quasi l’alba a Makeni

Attraverso il suo racconto, Corrado ci accompagna con lui nel suo arrivo a Makeni, tra la notte e l’alba, fra stradine nella giungla e una tempesta dove tutto si ricopre di acqua e un nuovo compagno di stanza

Scritto da Corrado Pagliarusco, Casco Bianco in Servizio Civile con Caritas Italiana a Makeni

Sono passati più di due mesi da quando siamo sbarcati a Lungi, l’aeroporto internazionale della Sierra Leone. Sembra una vita fa. Frastornati dopo un viaggio lungo più di venti ore tra voli e scali, ci ritroviamo in un aeroporto piccolo e malridotto, che mi ricorda la stazione degli autobus della mia città, pur essendo decisamente più caotico. Siamo io, Nike e il nostro referente Danilo, gli unici bianchi in tutto l’edificio, e probabilmente in tutta la città. Il primo Sierraleonese che incontriamo è un funzionario addetto al controllo documenti: camicia azzurra, pantaloni della tuta, infradito, cappello di lana (con 28 gradi), stecchino in bocca e sguardo accigliato. Welcome to Africa. Personalmente non sono un grande amante della formalità, quindi apprezzo l’outfit. Allo sportello per il controllo passaporti cercano di scucirmi 20 dollari, farfugliando qualcosa su una tassa per entrare nel paese; di fronte al mio secco “no” di risposta non insistono.

Passati i controlli siamo catapultati nel caos dell’aeroporto e veniamo subito accerchiati da una folla di persone che non si capisce bene cosa ci facciano lì. Tutti ti cercano, tutti ti parlano, anzi, urlano; Serve una sim? Un taxi? Un facchino? E’ l’una di notte (le tre in Italia) e noi abbiamo a malapena le forze per trascinare i piedi, figuriamoci per resistere alla calca. Ci precipitiamo verso i controlli per il covid insieme a un agente di polizia che si offre di accompagnarci. Lo stesso agente ci accompagna fuori dall’aeroporto, dove con nostra sorpresa troviamo una bolgia peggio della precedente. Nella moltitudine incontriamo il driver di Caritas Makeni, Ansu, futuro compagno di mille avventure. Ci dirigiamo quindi verso la macchina con Ansu, il poliziotto e due tizi a caso che praticamente ci strappano i bagagli di mano per portarceli. Una volta arrivati, il poliziotto e i facchini lasciano intendere che non hanno intenzione di andarsene senza una mancia, che prontamente elargiamo.

E così comincia il viaggio verso Makeni, la città principale del distretto di Bombali e in generale del nord del paese. La strada è in ottime condizioni, asfaltata e buia; i lampioni non ci sono e se ci sono non funzionano. Assistiamo al diradarsi delle case, che presto lasciano il posto agli alberi. In poco tempo ci ritroviamo immersi nella giungla. La vegetazione sembra essere ovunque intorno a noi e persino nell’oscurità, rischiarata solo dai fari della nostra Toyota Hilux nuova di zecca, se ne percepisce la potenza. Nike comincia a sonnecchiare quasi subito, guadagnandosi tutta la mia invidia. Incapace di fare altrettanto, continuo ad osservare il susseguirsi di palme, manghi e altri giganti verdi. Ogni tanto sbuca qualche villaggio: una moschea e poche case in mattoni con tetto di lamiera. Diverse case hanno portici sostenuti da colonne che nelle intenzioni dovrebbero rimandare a quelle degli antichi templi greci. Trovarsele davanti in Africa fa un certo effetto.

Dopo circa un’ora di viaggio veniamo investiti da una tempesta, ma non di quelle europee, una tempesta africana. Non ho mai visto così tanta pioggia in vita mia. All’improvviso la giungla, per quanto imponente, scompare; intorno a noi c’è solo acqua. Non si vede più neanche la strada, e Ansu comincia a procedere a passo d’uomo. Non ricordo quanto dura la tempesta, probabilmente una mezz’ora, ma sembra un’eternità. Poi all’improvviso più nulla, di punto in bianco la pioggia svanisce. Riprendiamo a viaggiare a un ritmo più sostenuto e arriviamo a Lunsar, importante centro minerario noto per l’estrazione del ferro. E poi ancora giungla, tanta giungla, che stavolta si alterna a zone pianeggianti, più o meno ampie. Finalmente, dopo circa tre ore e mezza di viaggio, eccoci alla meta, Makeni.

Sono le cinque del mattino e non ha ancora albeggiato, ma un po’ di luce comincia già timidamente a diffondersi, soffusa e tiepida. Nella penombra mattutina si scorgono i due colli che sovrastano la città, il Wusum e il Mena, rispettivamente uomo e donna in temne, lingua dell’omonimo gruppo etnico, il maggioritario in Sierra Leone. La strada in terra battuta per arrivare a casa è in condizioni pessime, tanto da ricordarmi alcuni sentieri dolomitici che mai mi sognerei di affrontare in auto. Ma l’Hilux è una bestia e non si lascia intimorire, e in poco tempo giungiamo a destinazione. Ci apre la porta Maia, l’ultimo Casco Bianco rimasto proprio per accoglierci e facilitare il nostro ambientamento nel paese. Solo per la levataccia alle cinque del mattino si merita da subito tutto il mio rispetto. Lasciamo molto poco tempo ai convenevoli, io, Nike e Danilo siamo sfiniti. Salutiamo Ansu e Maia e ci fiondiamo a letto. La casa è grande e ognuno ha la propria stanza.

In camera trovo però una sorpresa: sul soffitto in angolo a destra c’è il ragno più grande che abbia mai visto. Maia mi rassicura, “sono innocui”, e io non ho le forze per controbattere. Comincio a dormire felice, con un nuovo compagno di stanza e con la consapevolezza che da stanotte dormo sotto un cielo diverso, un cielo africano.

Ai ragni ci penserò domani.

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