Ricordare il passato non significa automaticamente comprenderlo, anzi. Tale considerazione risulta particolarmente vera per un paese complesso come la Bosnia, nel quale, anzi, la deformazione del passato ha favorito la genesi di avvenimenti tragici. Ancora oggi, a trent’anni dagli accordi di Dayton, l’utilizzo del passato continua ad essere motivo di tensioni e conflittualità latenti talmente grandi da rendere difficile la transizione da una fase di post-conflitto a una fase di pace.
La Bosnia è inoltre uno dei luoghi più coinvolti nella cosiddetta rotta balcanica e non è semplice in tale contesto riuscire a creare un clima distensivo fra la società civile bosniaca e i migranti in transito. Ogni guerra è figlia di contesti geopolitici, etnici e sociali e per questo motivo non può costituire un blocco monolitico, ma allo stesso tempo porta conseguenze spesso simili, fra le quali è impossibile negare la genesi di nuove migrazioni e l’impatto su determinate categorie sociali, come quella relativa all’infanzia. Proprio a partire dal punto di vista dei bambini esiste un luogo a Sarajevo, dove si fornisce una lettura diversa del passato e della guerra con l’obiettivo di costruire ponti e non muri. Si tratta del War Childhood Museum, legato alla Caritas dal 2019 attraverso un Cooperation Agreement Between the War Childood Museum and Caritas Italiana in Bosnia and Herzegovina.
La direttrice esecutiva è Amina Krvavac che racconta come è nato il museo: “Il museo dell’infanzia di guerra viene ufficialmente aperto nel 2017, ma in realtà il progetto parte nel 2010, quando Jasminko Halilovic, fondatore e oggi direttore, decide di raccogliere le testimonianze di coloro che, come lui, avevano vissuto l’assedio di Sarajevo da bambini. La sua idea iniziale era di pubblicare soltanto un libro, nel quale venissero racchiuse tutte queste risposte. Più di mille persone hanno risposto, esprimendo la loro tristezza per la mancanza di luoghi, sia fisici che online, nei quali poter raccontare i propri ricordi d’infanzia collegati alla guerra stessa.”
Nel 2015 Amina e Selma Tanovic, attuale Head of Research, sono state invitate da Jasminko Halilovic per aiutarlo a sviluppare il suo progetto di realizzazione del museo e nel giro di un anno e mezzo hanno raccolto quasi duemila oggetti e a registrare più di 100 ore di testimonianze. Oggi gli oggetti del museo sono più di quattromila e vengono esposti a rotazione.
Il museo non intende soltanto raccogliere oggetti, ma anche fornire un punto di vista diverso della guerra: quello dei bambini. Chiedo ad Amina in che modo è affrontata la natura etnica presente nel conflitto nei Balcani rispetto alla situazione infantile e mi risponde: “Il libro aveva raccolto testimonianze relative soltanto all’assedio di Sarajevo, mentre il museo ha deciso di allargare il suo orizzonte iniziale a storie provenienti da tutta la Bosnia ed Erzegovina. Sin dalle origini il museo ha voluto affermare che ogni bambino rimane uguale e con gli stessi diritti a prescindere dalla sua etnia di appartenenza e per questo motivo usciamo dalla questione etnica rifiutando a prescindere la guerra e il coinvolgimento dei bambini in essa. In questo senso la responsabilità individuale di mantenere la pace supera e annulla ogni discorso etnico, che riguardi i Balcani o il resto del mondo.”
Proprio a partire da tale orizzonte di valori nasce la decisione di occuparsi anche di altri conflitti. Nel 2018 il museo ha ricevuto il Council of Europe Museum Prize e ha cominciato ufficialmente a collaborare con Caritas Italia per raccontare le storie di bambini afghani, siriani e palestinesi presenti nel campo profughi di Bogovadja in Serbia e in Bosnia, compreso il campo di Ušivak a Sarajevo. Inoltre, il museo si è già “trasferito” a Kiev, in altre città della Bosnia, a Belgrado, Mostar…
Il War Childhood Museum, analizzando i conflitti dal punto di vista dell’infanzia, riesce a rendere ogni conflitto universale e universalmente sbagliato.
Per saperne di più visita: warchildhood.org/
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